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Posts Tagged ‘Philip Roth’

Il complotto contro l’America, di Philip Roth

Philip Roth, Il complotto contro l’America, 2004

[dalla nostra redazione culturale]

Nel 1964 Richard Hofstadter, già due volte premio Pulitzer per la storia, pubblicò la raccolta di saggi “The Paranoid Style in American Politics” (Lo stile paranoico nella politica americana). Secondo Hofstadter i politici americani, sin dalla nascita del paese, sono spesso riusciti a convincere l’opinione pubblica dell’esistenza di complotti, di trame, di nemici, accomunati dalla volontà di distruggere la nazione. Hofstadter scriveva avendo presenti fenomeni come il maccartismo e la sua crociata contro i comunisti, o i movimenti anti-massonici, o le tendenze anti-cattoliche, diffuse dai tempi della rivoluzione americana.

Hofstadter è stato riscoperto per inquadrare il fenomeno Trump. Anche lui vede i nemici dell’America, alternativamente, nei burocrati di Washington, nei socialisti, nella stampa, o in qualche potenza straniera. Lo stile paranoico mira a denigrare l’avversario; punta sull’ elettore inclinato, per esempio dopo crisi tipo il collasso finanziario del 2008-2009, ad accusare dei suoi mali la globalizzazione, le banche, le grandi imprese, le lobbies ebraiche, e chi più ne ha più ne metta. Tutto è stato reso più facile da una distribuzione del reddito e della ricchezza divenute più diseguali negli Stati Uniti rispetto a trenta anni fa. Sono fenomeni di tutto il mondo. In Italia si può fare riferimento a chi si preoccupa delle strisce bianche prodotte dagli aerei in volo o della pericolosità dei vaccini. Il personaggio di Maurizio Crozza, “Napalm51”, coglie bene il fenomeno.

Philip Roth parte in questo romanzo dall’antisemitismo diffuso negli anni Trenta, e anche successivamente, negli Stati Uniti. L’ipotesi è che Charles Lindbergh, asso dell’aviazione e fervente isolazionista, partecipi alle presidenziali del 1940, contro la volontà del partito repubblicano, come Trump 75 anni dopo. Alle elezioni Lindbergh sconfigge Franklin Delano Roosevelt.

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Inganno, di Philip Roth

Philip Roth, Inganno, 1990

[Le letture del martedì di RdB]

rothCapita che talvolta Omero dorma e dunque si può accettare che anche Roth abbia scritto un libro noioso e inutile. Due amanti clandestini si incontrano. Lui è il solito professore dei romanzi di Roth, questa volta inglese, ma con chiari riferimenti autobiografici, scettico, cinico. Lei parla molto di più, soprattutto delle incomprensioni con il marito. È un romanzo dove Roth ha ridotto a zero la descrizione di esterni, ambienti e stati d’animo, estremizzando una delle cifre del suo stile: i dialoghi serrati. Nelle continue scaramucce verbali il professore vince sempre, fino a scatenare scene d’isteria di lei. Divertente il sogno dello scrittore, dove un tribunale ipotetico lo processa per aver presentato nei suoi romanzi le donne come delle streghe, a iniziare dalle protagoniste del “Lamento di Portnoy”: il professore-Roth reagisce cercando di sedurre il magistrato donna che lo sta interrogando. Tornano, spezzettati, tanti temi cari a Roth – la sinistra radical chic critica con Israele, le difficoltà della separazione della donna dal marito, mentre il professore la irride, il dramma del socialismo reale (questa volta in Cecoslovacchia) – ma il collage non riesce.

Buone vacanze.

Operazione Shylock, di Philip Roth

Philip Roth, Operazione Shylock, 1993

[le letture del martedì di RdB]

rothUn’ossessione alla Roth, un incubo del protagonista che questa volta è lo stesso scrittore, senza le interposizioni alla Zuckerman. L’incubo è rappresentato da un classico della letteratura occidentale, il sosia. Solo che il sosia non si materializza nella Russia dell’Ottocento di Dostoevskij ma in Israele, dove Roth si è recato per intervistare un amico scrittore.

I libri di Roth sono sempre pieni di più di un’ossessione. Oltre al sosia qui c’è il rapporto con Israele. Negli altri romanzi il rapporto con l’ebraismo è trattato come ricordo d’infanzia o adolescenziale: le difficoltà e l’orgoglio di essere ebrei nella Newark degli anni quaranta, gli scontri con la famiglia, l’emancipazione (si pensi al “Lamento di Portnoy”, 1969). In “Operazione Shylock”, l’ambientazione – la presenza fisica di Roth in Israele – rende più duro il rapporto con la religione di origine, con la guerra con i palestinesi, con i terribili ed efficientissimi servizi segreti israeliani (ci saranno loro dietro il sosia che perseguita lo scrittore?). Come nella seconda parte di “La controvita” (1986) assistiamo allo  scontro tra l’ebreo laico che vive negli Stati Uniti e gli estremisti che vivono in Israele.

Roth ne ha per tutti. Per i palestinesi, che si ostinano a non riconoscere Israele, ficcandosi in una guerra senza speranza. Per gli israeliani, presi in giro perché hanno fatto ritorno nella terra d’origine, ficcandosi anche loro in una situazione complicatissima, mentre sarebbe ora di tornare nelle bellissime città mitteleuropee che hanno lasciato ma dove farebbero una vita ben migliore.

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La controvita, di Philip Roth

Philip Roth, La controvita, 1986

[le letture del martedì di RdB]

rothPer una volta Roth si abbandona allo sperimentalismo letterario, scrivendo un romanzo nel romanzo, anzi più romanzi in un unico romanzo, lasciandosi andare al gioco degli scambi dei personaggi e delle loro storie. Per ogni personaggio, in particolare per i due fratelli protagonisti Nathan e Henry, inizia nel libro  “una controvita”, una nuova esistenza, innescata da scelte rischiose e dal venire meno dell’autocontrollo.

Il romanzo è diviso in cinque parti.

La prima, “Basilea”, è fulminante. Nathan Zucherman parla del fratello, Henry, che è morto durante un’operazione affrontata per non rimanere impotente, e non deludere la moglie, la giovante amante e una fascinosa donna svizzera.

La seconda parte, “Giudea”, è la migliore. Nathan va a Gerusalemme e si trova subito, come Roth ci ha raccontato tante volte, di fronte all’amore-scontro con Israele. Nathan raggiunge Henry in una comune di coloni ebrei estremisti della quale Henry ha sposato la causa, abbandonando moglie e figli negli Stati Uniti. Roth scatena lo stesso meccanismo che riapparirà in “Operazione Shylock “. Un personaggio esalta Israele, giustifica i coloni, disprezza gli arabi, presenta l’ortodossia più ebraica che c’è. Un altro fa da contro altare: Nathan ribadisce che in Occidente gli ebrei vivono benissimo, che è da pazzi lasciare la famiglia e gli Stati Uniti per andare a cacciarsi in mezzo al deserto. Siamo ai vertici dei dialoghi rothiani.

La terza parte, “In volo”, è un intermezzo, incentrato sul contrasto tra i due fratelli e sullo scontro di Nathan (non per colpa sua) con l’apparato poliziesco di Israele.

Nella quarte parte, “Gloucestershire”, avviene lo scambio di ruolo tra i personaggi. Scatta l’inversione, inizia la contro vita dei due fratelli, con la tensione che esplode (e non diciamo di più per non togliere al lettore la sorpresa di apprezzare i cambi di prospettiva introdotti da Roth). Henry non sopporta più Nathan che ha già scritto “Carnovsky”, il romanzo che l’ha portato al successo.

Nella quinta parte, “Cristianità”, Nathan Zuckerman torna al centro della scena, sembra aver trovato la serenità ma, ancora una volta, tutto cambia.

Ci sono pagine di grande livello, ma “La controvita” talvolta annaspa, un po’ come quando Calvino cerca di sorprendere il lettore con continui cambiamenti di trama, con, appunto, il romanzo nel romanzo. Alla fine forse perfino i personaggi – sia Henry, sia Maria, l’ultima fiamma di Nathan – non ne possono più di vedere la loro vita cambiare continuamente nelle pagine che lo  Zuckerman-Roth sta scrivendo.

Sabbath: backstage di un teatro

Sabbath: backstage di un teatro [di L.I.]

sabbathSabbath è il protagonista eccentrico e superbo della vita ordinaria, normale, troppo spesso segnata da eventi dolorosi. È l’eroe di Philip Roth costruito per vivere il suo dolore in un continuo palcoscenico, dove ci si allontana dal perbenismo, lo si combatte con l’esagerazione, fuggendo dalle regole, muovendo un burattino ma senza fili.

La storia è ambientata negli Stati Uniti, New Jersey. Sabbath è il secondogenito di una famiglia normale, e cresce con una grande ammirazione per suo fratello maggiore che tuttavia sarà la sua prima fonte di dolore, un dolore intenso mai superato che cambierà per sempre il modo di interpretare la vita. La perdita del fratello, caduto durante la seconda guerra mondiale, si abbatte drammaticamente anche sulla madre, che solo l’arrivo della demenza tiene lontana da quel ricordo, lasciando Sabbath solo a combattere quell’assenza.

Questi tratti sono però magistralmente nascosti dallo scrittore, che presenta il volto di un uomo spavaldo, ironico, ossessionato dal sesso, e dalla continua ricerca di donne in grado di soddisfare il suo desiderio fisico, e le sue perversioni neanche troppo nascoste. Ma anche queste interazioni con le donne producono nella sua vita delle ferite. Nikki è la prima moglie, sottomessa, fragile (e traumatizzata dalla perdita della propria madre) che un giorno scompare nel nulla durante la loro vita a New York. Sabbath la cercherà freneticamente senza successo, decidendo di spostarsi da New York con la speranza di rompere quella che è diventata la sua odissea. Questa nuova assenza rende Sabbath più vulnerabile (afferma infatti: L’assenza di una presenza può stroncare la persona più forte), ma certo non rinuncerà alla sua interpretazione lussureggiante della vita. Roseanna sostituisce, infatti, Nikki diventando la seconda moglie di Sabbath. Anche in questo matrimonio c’è un contrasto tra la forza apparente, il carattere perverso di Sabbath e la debolezza, la sudditanza psicologica di Roseanna, anch’ella traumatizzata da un’infanzia difficile, da un rapporto padre-figlia combattuto e mai chiarito fino in fondo. Roseanna si accorgerà tardi di aver trovato in Sabbath un altro uomo sbagliato, un uomo che la distrugge moralmente, che la umilia con i suoi tradimenti, che le nega la maternità, ma un uomo da cui non riuscirà a staccarsi a causa della sua debolezza. Il ricordo di un padre spesso ubriaco, la spingeranno verso l’alcool che diventerà a lungo la sua consolazione. L’alcol rappresenta per Sabbath l’unico collante nel suo matrimonio, perché la poca lucidità di Roseanna gli consentiranno di continuare indisturbato nei suoi tradimenti.

E’ Drenka, in realtà, il vero amore di Sabbath, la donna con cui non ha limiti, con cui da pieno sfogo alla sua vita sessuale. Drenka è sposata, ha un figlio, ma a lei piace il sesso, ama tradire con i clienti dell’albergo di famiglia, con personalità, con uomini comuni ma soprattutto con Sabbath. Sabbath rappresenta per lei la libertà, l’uomo con cui può raccontare dei suoi continui tradimenti, scendere nei dettagli, e Sabbath è l’uomo che le chiede i dettagli dei tradimenti e insieme sono una coppia senza freni. Sabbath è la persona con cui Drenka, nata e cresciuta in Croazia, sente di vivere l’America, con cui conquista l’America. Ma proprio Drenka, di cui Sabbath a proprio modo è innamorato, le darà l’altro forte dolore. La sua morte per un cancro lo getteranno nello sconforto spingendolo dapprima a fare continue visite notturne (con masturbazioni incluse) sulla sua tomba e poi a partire per una ricerca di se stesso nel suo passato. Il ritorno a New York, in occasione della morte di un suo amico, e la visita al cimitero dove riposano i suoi genitori e suo fratello gli consentono di ripercorrere molte tappe della sua infanzia, molti errori commessi.

Sabbath rifiuta il perbenismo della società in cui vive, e i suoi fallimenti sentimentali ma anche professionali sono spesso voluti; per lui è impossibile vivere come alcuni suoi amici negli agii del successo, come mariti fedeli. Dietro le quinte della sua vita c’è solo il suo edonismo, a lenire forse le sue assenze, a diradare quei ricordi troppo ingombranti che gli hanno impedito una normalità (ma poi quale?) costringendolo alla continua ricerca, nei mari degli affetti, dell’isola perduta.

Nei momenti di solitudine e lucidità in cui è costretto ricorda infatti: In quanta stupidità dobbiamo calarci per giungere alla nostra meta, quali sconfinati errori bisogna saper commettere! Se qualcuno te lo dicesse prima, quanti errori dovrai fare, tu diresti no, mi spiace, è impossibile, trovatevi qualcun altro; io sono troppo furbo per fare tutti quegli errori. E loro ti direbbero, noi abbiamo fede, non preoccuparti, e tu diresti no, niente da fare, avete bisogno di uno molto più coglione di me, ma loro ripeteebbero che hanno fede in te, che tu ti trasformerai in un coglione colossale mettendoci un impegno che neanche ti immagini, che farai sbagli di una grandezza che neanche te li sogni…perchè è l’unico modo di giungere alla meta perchè è l’unico modo di giungere alla meta.

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Patrimonio, di Philip Roth

5 settembre 2013 2 commenti

Philip Roth, Patrimonio, 1991

[tornano dopo la pausa estiva le letture del martedì – eccezionalmente di giovedì – di RdB]

 

roth003Ennesima variazione sul tema della morte da parte di Roth, che anticipa i temi dell’Animale morente, uscito prima di Patrimonio in versione italiana, ma scritto nel 2001. Roth racconta la fine del padre, Hermann, che a ottantasei anni vorrebbe camparne altrettanti. Roth fa un’operazione da romanziere realista dell’Ottocento. Si dice che Flaubert e altri scrittori del suo tempo se ne andassero negli ospedali a vedere la gente crepare per descrivere meglio la morte nei loro libri. Roth fa una cosa diversa, non vuole parlare solo della morte: vuole farci conoscere tutto degli ultimi mesi di vita del genitore. “Non devi dimenticare nulla” è il motto esplicito del libro. Il migliore omaggio da fare al padre è raccontare nei dettagli il suo ultimo periodo, i suoi ricordi e le reazioni di tutti quelli che gli stanno vicino, il figlio e gli altri parenti.

Roth ci ha spesso raccontato storie incredibili, spesso ai limiti della verosimiglianza. Patrimonio è un’altra cosa, è una storia vera, narrata nei minimi particolari: l’apparire della malattia, le difficoltà di interpretarne i sintomi, gli incontri con i medici, i verdetti in parte diversi, le reazioni di Hermann e di Phil, la scelta terribile se operare o meno. C’è tutto l’amore di un figlio per il padre anziano in una scena tragicomica, nella quale il genitore non ce la fa a raggiungere in tempo il wc e se la fa sotto, insozzando tutto il bagno. Il figlio supera la vergogna del padre, lo lava, lo accompagna a letto, e poi torna a pulire il bagno nei punti più reconditi, fino a concentrarsi sui solchi che dividono le mattonelle.

Forse le pagine più belle sono i ricordi del padre della vecchia Newark, dell’orgoglio di essere stato un lavoratore di successo in una compagnia di assicurazione. C’è la storia della comunità ebraica di Newark, della mutua assistenza, di famiglie che dal nulla sono diventate ricche (anche attraverso il pugilato!), un tema che esploderà in Pastorale americana. Pagine classiche, come in altri romanzi dell’autore, sono quelle sul caratteraccio del padre, naturalmente peggiorato con la vecchiaia e la malattia. Perché, in fondo, i personaggi memorabili di Roth hanno dei caratteri terribili, si pensi a Sabbath, al padre dello svedese in Pastorale, al professore della Macchia umana.

Le ultime pagine, con la morte del padre, la decisione di non far attaccare il respiratore meccanico (“Papà, ti devo lasciare”), e il sogno della nave fantasma, dismessa e ormai alla deriva, raggiungono livelli altissimi, ai quali Roth ci ha spesso abituato.

Goodbye, Columbus di Philip Roth

Philip Roth, “Goodbye, Columbus”, 1959

 [Le letture del martedì, di RdB]

A Philip Roth non interessano le descrizioni eleganti, spesso minuziose e sovrabbondanti, di ambienti, interni ed esterni, di vestiti, salotti, città, mari e monti, alla Proust, alla Flaubert o alla Nabokov (noi amiamo in particolare gli ultimi due). Gli sono pure alieni gli sperimentalismi alla Céline o alla Gadda (altri nostri idoli). Né gli interessa troppo l’introspezione psicologica alla Dostoevskij, per fare un solo esempio.

roth

A Roth interessano i dialoghi, i ragionamenti o, meglio, gli scontri tra uomini e donne, o tra persone dello stesso sesso. Può trattarsi di mamma – o entrambi i genitori – e figlio maschio, un classico ebreo, come ne “Il lamento di Portnoy” e “Indignazione”.
Oppure tra padre e figlio maschio, come in “Pastorale americana” o in “Patrimonio”. O tra padre e figlia femmina, come ancora in “Pastorale americana”. Oppure tra fratelli, come in “L’animale morente “ o “La controvita”. Certo, gli scontri ricorrenti sono quelli tra marito e moglie – o tra amanti – come in “La macchia umana” e “Il teatro di Sabbath”.
Una classificazione completa di questi scontri è impossibile, anche perché essi si svolgono in gran parte fuori della famiglia. Sono dialoghi, ma spesso litigi, che scaturiscono da idee diverse, religioni diverse, caratteri e ambienti sociali diversi. Si capisce che Roth eccelleva a scuola nell’ora di dibattito, un must dell’educazione statunitense. Nella vita esistono essenzialmente persone con idee diverse e spesso non ci si riesce  a mettere d’accordo: questo sembra dirci Roth.
Anche in questo primo libro – un raccolto lungo e cinque pezzi più brevi – i personaggi si scannano, si accapigliano. Soprattutto non ci si capisce. Nel lungo racconto “Goodbye, Columbus”, non ci si comprende con l’amata (se ne trasse anche un film). Tutti gli stereotipi della famiglia sono lì (splendido il ritratto del fratello perdente del signor Patimkin).

Negli altri racconti si litiga soprattutto tra ebrei, su come interagire con il rabbino, su come concepire la vita in caserma o su come intendere la tradizione (“Eli, il fanatico” è un piccolo capolavoro). Ma ci sono anche famiglie che si disgregano e allievi difficili che le scuole non riescono a gestire.

“Goodbye, Columbus” uscì nel 1959, quando Roth aveva 26 anni. Non siamo ai livelli – né per qualità né per età – dei “Buddenbrook”, che Thomas Mann scrisse a 26 anni, e di “Gli indifferenti”, che Moravia pubblicò a 22 anni, ma la stoffa del grande scrittore già si vedeva, eccome.

Everyman, di Philip Roth

Philip Roth, Everyman, 2006

[Le letture del martedì di Rdb]

roth002Everyman è forse il romanzo più cupo di Roth. Ci sono solo malattie e disfacimento della famiglia e del corpo. Non c’è spazio per i ricordi della comunità ebraica di Newark, con l’eccezione della descrizione del negozio di orologiaio–gioielliere del papà. L’elenco delle operazioni chirurgiche è terribile, a partire dal ricordo di un’appendicite del protagonista, quasi degenerata in peritonite a nove anni, con un bambino vicino di letto che non ce la fa. Malattie e morti colpiscono parenti e amici: il papà, la mamma, la seconda moglie, e tanti conoscenti. Einaudi ha riprodotto la stupenda copertina nera dell’originale americano.

Sembra una delle opere del periodo finale di Rotko: nel quadro c’è solo la morte. Tra le cose liete c’è spazio solo per il ricordo del sesso con la terza moglie, una modella danese di ventiquattro anni per la quale il protagonista cinquantatreenne perde la testa, con una fuga d’amore in Europa e la distruzione del suo precedente matrimonio. La macellazione della famiglia è completata dai pessimi rapporti con i due figli nati dal primo matrimonio.

Ne “L’animale morente” c’erano la malattia e la morte, ma il protagonista lottava, protestava, contro il fratello schiavizzato dalla nuova moglie o contro l’America bigotta che si opponeva alla liberazione sessuale degli anni Cinquanta. Qui non c’è lotta, c’è solo l’attesa per il destino che tutti accomuna. Straziante è la fine degli amici, dei più cari, di quelli con i quali si è vissuto e lavorato per tutta la vita, di quelli che ci hanno sempre difeso e protetto. Il protagonista ha un momento di pace quando chiede il permesso, accordato, di osservare il lavoro di un becchino che scava metodicamente una fossa, un deja-voo di una scena più frenetica presentata nel “Teatro di Sabbath”.
Alla fine la morte arriva come una liberazione.

Indignazione, di Philip Roth

18 settembre 2012 Lascia un commento

Philip Roth, Indignazione, 2008

[Le letture del martedì di RdB]

Un lungo sfogo dello studente Marcus Messner contro il padre iperprotettivo, contro l’autoritarismo e la  disciplina dei college statunitensi degli anni Cinquanta, contro l’imposizione di un credo religioso, contro la repressione sessuale, contro il massacro della guerra coreana, a favore dell’individualismo e della libertà di pensiero.

Non è tra i migliori libri di Roth per il ritmo monocorde, l’assenza di cambi di passo, la caratterizzazione dei personaggi appena accennata, se si fa eccezione per il protagonista, i suoi genitori e la sua amica Olivia. Mancano – a parte gli scontri tra il protagonista e il decano del college – i dialoghi memorabili dove i personaggi di Roth si dilaniano: si pensi a “La controvita”, a “Operazione Shylock”, a “Pastorale americana” a “Il teatro di Sabbath”. In fondo è normale che una indignazione non possa comportare le sfumature degli altri romanzi ricordati.

L’indignazione è contro la casualità della vita e contro l’apparato repressivo che ha spinto Marcus verso la fine. Naturalmente, trattandosi di uno scrittore del livello di Roth, la storia si legge tutta di un fiato, ma sarà ricordata soprattutto per come descrive un’America delle università che, per fortuna, non esiste più.

Zuckerman scatenato, di Philip Roth

20 marzo 2012 3 commenti

 

Philip Roth, Zuckerman scatenato, 1981

[leletture del martdì di RdB] 

Le disavventure, autobiografiche, di uno scrittore che ha scritto un libro di grande successo. È lo Zuckerman di “Lo scrittore fantasma”, ma con qualche anno in più, perché è già il Roth che ha all’attivo vari bestsellers. Lo vediamo tormentato dalla gente che lo riconosce per strada, lo ferma, lo incensa e lo tortura per la fama di “Carnovsky” (sarà “Il lamento di Portnoy”?). Poi le cose peggiorano. Un pazzo, già vincitore di quiz televisivi, e convinto di subire una macchinazione orchestrata per farlo fuori, chiede a Zuckerman di leggergli le bozze del suo romanzo e le sue critiche letterarie, basate sui ricordi della comune Newark, nella quale entrambi sono cresciuti. Ma le cose vanno sempre peggio. Una voce anonima telefonica ricatta Zuckerman, chiedendogli del denaro per non rapire la mamma, ritiratosi in Florida con il marito morente su una sedia a rotelle. Anche l’avventura di una notte con una bellissima attrice, Caesara O’Shea, prontamente ripresa dalla stampa rosa, non apporterà serenità allo scrittore. Per non parlare della fine del matrimonio con Laura, simbolo di tutte le virtù, ma che Zuckerman trova ormai noiosa, nella sua perfezione, e dalla quale non riesce comunque a staccarsi. Infine, l’epilogo: la corsa in Florida al capezzale del padre, la sofferenza della morte, il dolore della madre, la pena del funerale, l’inevitabile scontro con il fratello buono, così diverso dal satiro, irriverente, cinico, cattivo Zuckerman-Roth.

La parte meno riuscita del romanzo è quella sui tormenti legati alla fama del grande scrittore, preannunciata addirittura da una citazione del Prof. Lonoff, il co-protagonista de “Lo scrittore fantasma”. In fondo, malgrado i soliti spunti comici – la O’Shea che lascia Zuckerman perché è l’amante di Fidel Castro – che ce  importa di uno che soffre essenzialmente perché è multimilionario? Meglio il Roth dell’infanzia a Newark, delle liti con il padre tiranno, dell’amore per la madre tutta dedita alla famiglia, delle descrizioni dei funerali, sia del padre sia di un famoso gangster. Sono i temi che torneranno, più in grande, nei romanzi successivi di Roth.

Se è vero che ogni scrittore scrive sempre lo stesso romanzo, qui Zuckerman-Roth si allena per preparare i suoi immensi capitoli del futuro: la morte, il sesso, il rapporto con le donne e i genitori, che appariranno con forza maggiore nei libri successivi. Insomma, un romanzo che si può leggere come si guarda una partita amichevole, nel senso che il risultato non è la cosa che conta di più, in vista delle finali future.