I giornalisti, D’Alema e Balzac
Il complotto contro l’America, di Philip Roth
Philip Roth, Il complotto contro l’America, 2004
[dalla nostra redazione culturale]
Nel 1964 Richard Hofstadter, già due volte premio Pulitzer per la storia, pubblicò la raccolta di saggi “The Paranoid Style in American Politics” (Lo stile paranoico nella politica americana). Secondo Hofstadter i politici americani, sin dalla nascita del paese, sono spesso riusciti a convincere l’opinione pubblica dell’esistenza di complotti, di trame, di nemici, accomunati dalla volontà di distruggere la nazione. Hofstadter scriveva avendo presenti fenomeni come il maccartismo e la sua crociata contro i comunisti, o i movimenti anti-massonici, o le tendenze anti-cattoliche, diffuse dai tempi della rivoluzione americana.
Hofstadter è stato riscoperto per inquadrare il fenomeno Trump. Anche lui vede i nemici dell’America, alternativamente, nei burocrati di Washington, nei socialisti, nella stampa, o in qualche potenza straniera. Lo stile paranoico mira a denigrare l’avversario; punta sull’ elettore inclinato, per esempio dopo crisi tipo il collasso finanziario del 2008-2009, ad accusare dei suoi mali la globalizzazione, le banche, le grandi imprese, le lobbies ebraiche, e chi più ne ha più ne metta. Tutto è stato reso più facile da una distribuzione del reddito e della ricchezza divenute più diseguali negli Stati Uniti rispetto a trenta anni fa. Sono fenomeni di tutto il mondo. In Italia si può fare riferimento a chi si preoccupa delle strisce bianche prodotte dagli aerei in volo o della pericolosità dei vaccini. Il personaggio di Maurizio Crozza, “Napalm51”, coglie bene il fenomeno.
Philip Roth parte in questo romanzo dall’antisemitismo diffuso negli anni Trenta, e anche successivamente, negli Stati Uniti. L’ipotesi è che Charles Lindbergh, asso dell’aviazione e fervente isolazionista, partecipi alle presidenziali del 1940, contro la volontà del partito repubblicano, come Trump 75 anni dopo. Alle elezioni Lindbergh sconfigge Franklin Delano Roosevelt.
Lontano un miglio. Pannella e “noi”
Per coerenza non mi sono unito al cordoglio per la morte di Marco Pannella.
Anni settanta. Al Liceo classico Tacito la maggior parte degli studenti era, o si diceva, “di sinistra”. Estrema, meno estrema: democrazia proletaria, Lotta Continua, FGCI. C’erano anche parecchi studenti di destra (molti meno, ma c’erano, erano coesi e duri, specie fino al ’77 – poi, come tutto il resto, si sono ammosciati); c’erano i cattolici (capitanati dall’attuale senatore dem Giorgio Tonini). E c’era un radicale. Un unico ragazzo radicale. Non ricordo neppure come si chiamasse. Era preso in giro da tutti, ma alla fine era tollerato solo in ragione del suo essere, appunto, uno. Il motivo per il quale veniva deriso era chiaro: in quanto radicale non mostrava alcun interesse per la lotta di classe, per le battaglie operaie, per i palestinesi e gli oppressi in genere, che ovviamente erano tutti in cima ai nostri pensieri. All’epoca era già “di destra” essere della FGCI (era “di destra” Berlinguer…: almeno a dirlo erano quelli che oggi si ritengono custodi della sua memoria politica), figuriamoci essere radicale. I radicali erano borghesi neppure tanto illuminati; vestivano bene, parlavano bene, ma al dunque non erano interessati alla rivoluzione, flirtavano con Craxi, avevano obiettivi e fissazioni che non ci riguardavano. Sì, il divorzio, l’aborto… ma quelle erano state battaglie “anche nostre” (ed è vero). I radicali noi non li sopportavamo perché ci sarebbe piaciuto che fossero di sinistra, ma non lo erano. Per niente.
Analisi del voto
Questa foto è uno dei motivi per i quali il PD ha preso il 40%.
Guardateli. Personalmente ne riconosco 7 su (circa) 25. Saranno impreparati, già troppo preparati, incapaci, mediamente intelligenti, troppo furbi, poco furbi. Non lo so. Ma questa è la “nomenklatura” del PD di Renzi. Sono “altri”.
Ci abbiamo messo un po’ ma finalmente siamo entrati nel XXI secolo. Come sarà non si può ancore dire (il processo è ancora lungo: sarà completo solo con la sparizione definitiva di B.: coraggio, manca poco).
La Champions League, Mourinho e l’Euro. Una buona ragione per esserci (e votare)
[riceviamo e volentieri pubblichiamo, come si diceva una volta]
Lo scorso mese di aprile, dopo aver superato gli ottavi di finale della Champions League – battendo il Paris Saint Germain – Josè Mourinho, allenatore del Chelsea, ha spiegato perché un paese deve rimanere nell’area dell’euro: “L’anno scorso il Chelsea giocava contro il Rubin Kazan. Quest’anno gioca la Champions League”; (per i non addetti ai lavori: il Rubin Kazan è una squadra russa che nel 2013 ha partecipato alla Europa League, come il Chelsea, una competizione molto meno importante della Champions League).
In questa battuta ci sono tutte le motivazioni che spiegano perché l’Italia deve rimanere nell’area dell’euro. Fuori dall’area staremmo con la Russia, con l’Ucraina, con l’Albania, con la Serbia, con il Montenegro, solo per fare qualche esempio. Questi sono alcuni dei paesi che non sono membri dell’Unione europea. Le regole sono chiare. Un paese che lascia l’area dell’euro è fuori anche dall’Unione europea. Quindi l’Italia si confronterebbe con i paesi ricordati.
L’Italia non è la Norvegia, paese di 5 milioni di abitanti (come la Sicilia), né come la Svizzera, che di abitanti ne ha 8 milioni (la Lombardia da sola ne ha quasi 10). Norvegia e Svizzera sono due piccoli paesi, da sempre neutrali. L’Italia ha 60 milioni di abitanti ed è uno dei paesi fondatori dell’Europa. E poi l’Italia non ha né il petrolio della Norvegia né la finanza della Svizzera. Anche se non è politicamente corretto (e me ne scuso), occorre ribadire che fuori dall’Unione europea noi dovremmo metterci al tavolo delle trattative con russi, ucraini, serbi, albanesi etc.
Né potremmo fare un’alleanza con il Regno Unito. Prima di tutto perché il Regno Unito è membro dell’Unione europea. Ma soprattutto perché il Regno Unito ha molte cose che noi non abbiamo: una politica privilegiata di vicinanza con gli Stati Uniti; una lingua che ne garantisce un vantaggio competitivo che l’italiano non assicura; una stabilità politica per noi sconosciuta; un peso delle banche e della finanza che noi ci sogniamo (nel bene e nel male). Il Regno Unito non ha bisogno dell’Italia.
Mourinho l’ha detto. Bisogna stare nella Champions League. Nessun tifoso italiano preferirebbe giocare la Europa League piuttosto che la Champions. Provate a chiederlo a un tifoso romanista, la cui squadra è appena tornata in Champions League dopo molti anni di esclusione.
Certo, quando giochi a Barcellona o a Monaco di Baviera puoi prenderle, puoi essere sconfitto (come è accaduto a Mourinho nella semifinale con l’Atletico di Madrid). Ma stando a contatto con i più bravi puoi migliorare, puoi provare a vincere, puoi provare a cambiare il corso delle cose nelle partite che contano, puoi dire la tua. L’alternativa è il Rubin Kazan. Ricordàtelo il 25 maggio.
Vice
Che c’è da ridere? (fenomenologia del potere: Nichi Vendola)
Al netto delle ragioni dell’interessato e del legittimo dubbio (perché solo ora, dopo tre anni?), la risata di Nichi Vendola, pur non penalmente rilevante è inequivocabilmente un segno. Una traccia, un indizio, di più: una prova. Che il potere, chiunque lo impersoni, è il Potere. E’ un insieme dove tutto si tiene, dove le differenze si assottigliano e la cooptazione reciproca è inevitabile.
I fatti: Nichi Vendola chiama al telefono l’ingegner Archinà, allora capo delle relazioni istituzionali dell’Ilva di Taranto. Lo fa sia per rassicurare il braccio destro di Riva sul suo impegno personale volto a far sì che l’Ilva non chiuda; sia, soprattutto, per commentare un video che amici gli hanno fatto vedere su YouTube, in cui l’Achinà, oggi agli arresti domiciliari, difende il suo capo dalle domande scomode di un giornalista locale in relazione alle morti di cancro nella loro città. L’intervento di Archinà è rude, plateale. E Vendola ride. Dice di avr riso per un quarto d’ora, con il suo capo di gabinetto, e ancora ride. Una risata compulsiva, impetuosa, di cuore.
Qualcuno, Davide De Luca su Il Post ha cercato di giustificare il comportamento di Vendola, fra l’altro criticando il modo con il quale Il Fatto Quotidiano, che per primo ha pubblicato sul proprio sito l’intercettazione, ha montato l’audio e il video: tagliando, cucendo, lasciando scorrere immagini inquietanti di ciminiere accompagnate da una musica drammatica e drammatizzante. Dice De Luca: esiste una copia più pulita, senza interpolazioni, che spiega meglio il contesto e quindi consente di giudicare diversamente.
Certo, la versione con montaggio ruffiano, a effetto, musica drammatica e repertorio iconico allarmistico/allarmante induce a dare un giudizio severo e scandalizzato su Nichi Vendola. Si dà il caso però che questa versione io l’abbia vista dopo la versione integrale (che è quasi uguale: stessa musica e stesse immagini, ma senza rimontaggio dell’audio). Su Facebook il link condiviso da molti utenti punta infatti su quella “pulita” (sempre ospitata sul sito del Fatto, fra l’altro). E il mio giudizio è stato identico: severo e scandalizzato. Non è la musica, né le immagini, né l’accostamento di queste alle parole vacue e divertite del governatore a scandalizzare.
Infatti la mia domanda, da subito, è stata: ma che c’è da ridere? Un giornalista (impacciato? buffo? provincialotto? non abbastanza à la page come quelli che vanno alla tivvù? chi se ne frega: un giornalista) fa una domanda a Riva, un uomo potente e cinico. Una domanda scomoda, irritante. Come le fanno i giornalisti della televisione. A questo punto si intravede il responsabile delle relazioni istituzionali, uomo di una certa età, dall’espressione granitica, furente ma dignitosamente controllato, rubare con destrezza il microfono al giornalista, piazzandoglisi poi davanti, facendo scudo con il proprio corpo al suo boss, minacciato dall’ometto che osa fargli domande indiscrete.
Fa ridere? Guardatelo. Fa ridere solo se esiste, a monte, una solidarietà, una vicinanza culturale fra chi ride (in modo sguaiato, ripetuto, irrefrenabile) e i potenti che cercano di prendersi gioco del giornalista. Una mezza tacca, fa capire Vendola al telefono, uno che si improvvisa paladino della salute, senza averne titolo, uno con la “faccia da provocatore, “senza arte né parte”. Chi sta con chi è molto chiaro. Il potere sta con il potere.
Una lezioncina dall’Europa
Che il partito popolare europeo (PPE) incalzi Mario Monti per mettersi alla guida dei moderati italiani, cioè quello stesso Mario Monti appena sfiduciato dal maggiore partito di centro destra, ma apprezzato – con qualche critico distinguo – dal maggiore partito di centro-sinistra, può sembrare una bizzarria ma è la cosa più logica che possa essere venuta in mente a chi ha una visione della politica e della vita, appena appena normale.
Solo che, invece, in Italia normale è che un conservatore liberale come Monti, serio, rigoroso e poliglotta, sia inviso al partito che dovrebbe guidare (ridanciano, populista e strapaesano) e sia simpatico a quelli che dovrebbero essere i suoi naturali avversari.
Io mi auguro che Monti si metta finalmente alla guida del centrino di Casini e Montezemolo (e Rutelli? che fine ha fatto Rutelli?), e di quelli che ci vogliano stare, faccia la sua bella campagna elettorale, perda con dignità e la finiamo qui. La vittoria del centrosinistra, e quindi il futuro governo italiano, acquisterebbe un maggior peso specifico nelle severe valutazioni europee, perché ottenuta sul campo non contro un avversario delegittimato e impresentabile, ma contro un avversario onesto, capace, ma con idee diverse. Sarebbe la prima cosa “normale” che ci possa capitare di vivere da vent’anni a questa parte.
Chi non ha votato in Sicilia?
Siamo sicuri che il non-voto siciliano sia interamente da ascriversi a disaffezione per la “vecchia politica”, che sia stato un non-voto di protesta?
Io penso che almeno una buona parte dei siciliani che non hanno votato lo hanno fatto perché non avrebbero saputo con chi e per che cosa scambiare il loro voto. Venuto meno il fine utilitaristico del voto (con chi la mafia avrebbe potuto apparentarsi? con il sicuramente perdente Miccichè? con il sicuramente perdente Musumeci dello sgangherato PdL? Certo – almeno lo spero – non con il favorito Crocetta).
Così, libero di fare come gli pareva, e privato di qualche buon motivo per farlo (la casa, il lavoro, la protezione), il siciliano di andare a votare ha fatto volentieri a meno.
Perciò, di fronte al 52% delle astensioni è inutile e bizzarro, come ha fatto qualcuno, ipotizzare quale dei candidati abbia beneficiato del voto “della mafia” (Grillo? l’UDC?). Come se il voto della mafia fosse altro dal voto (in questo caso: dal non-voto) dei siciliani (di certi siciliani). La risposta è lì. E forse non è una brutta risposta: il voto di protesta è quello di chi ha votato.
Destra, sinistra… ancora?!
Questo spiacevole accadimento accaduto ieri mattina documentato qui accanto mi ha dato la possibilità di fare alcune profondissime riflessioni di natura sociopolitica (erano le 8 e 40, ora di punta, a Roma, capitale d’Italia: ricordo che nella derelitta San Pietroburgo del 2004 la metro passava ogni minuto e mezzo di giorno e ogni tre la sera senza mai sforare di un secondo: quando andava via un convoglio su un display posto all’imbocco della galleria partiva il conto alla rovescia e, a allo scattare dello zero, puntualmente arrivava il treno successivo).
Quando si dice che far arrivare i treni in orario è un miserabile obiettivo “fascista” perché a vantarsene (un bel po’ di annetti fa: quasi un secolo fa!) era il cavalier Benito Mussolini, penso si dica un’idiozia assoluta.
Se è così ne dovrebbe scaturire infatti che dovrebbe essere un obiettivo anche di Gianni Alemanno, attuale di sindaco di Roma. Invece Gianni Alemanno non sa neppure cosa significhi fare arrivare i treni in orario, non è proprio la sua materia. I treni della Metro B non arrivano mai in orario. Non ce l’hanno neppure un orario.
Quindi, dal momento che fare arrivare i treni in orario, ancorché quelli della scassatissima Metro B, è cosa senz’altro utile per i cittadini, e poiché un sindaco postfascista non è in grado di raggiungere questo minimo sindacale di decenza amministrativa, io pretenderei che un’amministrazione di segno opposto ad Alemanno, cioè di centrosinistra, si ponga fra i suoi obiettivi principali anche quello di fare di tutto affinché i treni della Metro B arrivino in orario, rispettando normalissimi standard di efficienza europei. Senza se e senza ma. Perché oggi, anzi domani, nel 2013, fare arrivare i treni in orario, non essendo chiaramente una cosa di destra, è una cosa di sinistra.