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Non licenziamo gli ebook!

ebOOKSSe l’ebook è un libro (periodo ipotetico di primo grado) perché ci si deve pagare l’IVA al 22%, mentre sui libri di carta è al 4%? Non sarebbe utile, giusto e ragionevole equiparare i due regimi fiscali?

Se ne è discusso parecchio in queste settimane, in seguito alla campagna lanciata dall’AIE, Associazione italiana editori Un libro è un libro. Su Vibrisse, ad esempio, o su Nazione Indiana, o su quotidiani nazionali come La Stampa, o sui vari blog olit-blog parsi per le galassie della Rete.

La campagna è riscosso facili entusiasmi, come poteva essere diversamente? Ma siamo sicuri che l’ebook sia un libro?

Certo, da un punto di vista ontologico lo è: l’esperienza di lettura di un ebook è assai poco diversa da quella di un libro cartaceo (in genere a questo punto scatta il momento “odore delle pagine”, ma lasciamo perdere).

Peccato che, come si sa, un ebook non è un vero e proprio libro per il semplice motivo che quasi mai un ebook viene venduto; l’ebook viene dato “in licenza“. Non lo posso prestare, non lo posso rivendere, non lo posso regalare, dopo averlo letto, alla biblioteca comunale. L’ebook non è un oggetto sociale: non lo posso condividere nemmeno con i miei familiari. Questo, quasi sempre (se lo compro, ops, se lo prendo in licenza su Amazon, Ibs, Google, ITunes etc etc… Cioè attraverso i canali più utilizzati, quelli dove si vendono prevalentemente i libri degli editori rappresentati dall’AIE). Ovviamente l’ebook può anche essere effettivamente “venduto” (venduto? diciamo che può essere distribuito senza DRM – digital rights management, quel codice che, più o meno intrusivo, inserito all’interno del file ne determina le modalità di utilizzo), ma non credo che l’AIE avesse in mente questo tipo di ebook quando ha lanciato la sua campagna per ridurre l’IVA. Riduzione che naturalmente non si trasferirebbe in modo automatico sul prezzo finale, ma questo è – per davvero – un dettaglio. Il differenziale fra 22 e 4 percento, potrebbe essere comunque rivelarsi un vantaggio, indiretto, per il lettore: editori più ricchi potrebbero pubblicare libri migliori, curarli di più, cercarli meglio fra i potenziali esordienti. Il vantaggio culturale di ritorno è certamente difficile da quantificare, ma glielo concediamo volentieri (questo per dire che l’argomento: in Italia la penetrazione nel mercato degli ebook è molto bassa, il taglio dell’IVA le darebbe una spintarella non ha alcun fondamento: no, non cambierebbe nulla – vale comunque la pena leggere questo bell’articolo su Wired).

Il problema della natura giuridica dell’ebook, tuttavia, resta. Ed è bello ingombrante. Non solo perché sui prodotti elettronici non si applica il principio cosiddetto dell’esaurimento del diritto (una volta che ti ho venduto un paio di scarpe, una lampada o un libro l’oggetto diventa tuo, io non posso vantare più alcun diritto materiale, perciò ci puoi fare quello che ti pare – nel caso del libro stiamo parlando dell’oggetto, non del suo contenuto, protetto dal diritto d’autore); ma anche perché la riduzione dell’IVA sui libri stampati costituisce una sorta di compensazione a vantaggio degli editori, non già dell’utente finale, a fronte dei rischi connessi con le copie invendute, problema che con gli ebook logicamente non si pone.

Insomma, l’impressione è che l’AIE voglia, come spesso succede, botte piena e moglie ubriaca.

Se l’ebook fosse un libro (periodo ipotetico di secondo grado) io la metterei la faccia sulla campagna dell’AIE (che ha peraltro ben poche possibilità di riuscire, dal momento che la materia è di pertinenza della commissione europea). Così no. E’ una furbata. Se poi l’AIE lanciasse la campagna per liberalizzare il prezzo dell’e-book e non congelarlo a 9,99 euro ci metterei la faccia e anche i piedi.

 

 

 

Editori a perdere

La domanda è semplice: un editore, un piccolo editore, può permettersi di non pagare o sottopagare (più spesso non pagare) i propri collaboratori pur di sopravvivere? Fa differenza se l’editore pubblica libri di qualità oppure no?
E un editore, un medio-grande editore può permettersi di limitare al minimo sindacale le tirature di un libro che sta riscuotendo attenzione e riconoscimenti quasi unanimi da parte della critica perché “c’è la crisi”?

Federico Di Vita, giovane scrittore e saggista esperto del mondo editoriale italiano (suo Pazzi scatenati, Tic Edizioni,  pamphlet brillante e documentatissimo sulle malefatte della piccola editoria specialmente romana), sulla pagina Facebook dell’editore Voland lamenta pubblicamente il mancato pagamento per una prestazione redazionale risalente a più di un anno fa. Nei commenti prevalgono quelli di solidarietà. Escono allo scoperto i traduttori, soprattutto, e in genere quel popolo di valorosi semi-volontari delle professioni intellettuali che senza vedersi corrisposta mai nessuna forma di retribuzione, con passione e (probabilmente) eccessiva generosità in pratica fanno loro tutto il lavoro.
Ma ci sono anche i distinguo, di coloro che vogliono premiare la sincerità degli sforzi dell’editore in questione di pubblicare libri di qualità e di non facile distribuzione (anche se Voland ha trovato la sua personale america traducendo tutti i libri della Nothomb).

E’ lo stesso ragionamento, in pratica, che porta avanti la proprietaria della casa editrice, Daniela Di Sora (in un’intervista pubblicata qui; le sue risposte sul social network erano state molto sbrigative, per non dire decisamente offensive): c’è la crisi, noi facciamo il nostro lavoro, e per continuare a farlo ci tocca darci delle priorità, così abbiamo scelto di pagare i collaboratori fissi, poi i traduttori (esce fuori la traduttrice che afferma, non smentita, di aspettare da 3 anni di essere pagata) e infine, se rimane qualcosa, i collaboratori esterni. Ma qualcosa non rimane mai per i collaboratori esterni.

L’obiezione è fin troppo semplice: è etico assegnare un lavoro ad un collaboratore esterno già sapendo che non lo si pagherà mai, negandogli questo piccolissimi dettaglio in modo da indurlo a lavorare con la speranza/illusione di essere (perfino) retribuito? E’ sufficiente il proprio pedigree culturale? E’ sufficiente dimostrare, bilanci alla mano, che i soldi sono finiti, in Italia “non paga nessuno” (falso), non legge nessuno, che l’alternativa è dichiarare fallimento?
Ci sono molti modi per sostenere una casa editrice cui si è affezionati per evitarne la chiusura (comprare i suoi libri, diffonderli fin che è possibile nelle proprie cerchie di amici e così via). Sicuri che fra questi ci sia anche il non pagare i propri collaboratori, senza avvertirli di questa “eventualità” (per non dire “certezza”?).

Un altro lato della medaglia. C’è un libro di cui si parla ovunque: se n’è parlato a Fahrenheit, a Pagina 3, he ricevuto un inaspettato del tutto gratuito endorsement da parte di Jovanotti, sui giornali (su Tuttolibri della Stampa ha riscosso gli elogi incondizionati di Angelo Guglielmi), e così via. Il libro è Il superlativo di amare di Sergio Garufi. Purtroppo se andaste a cercarlo nelle principali librerie lo trovereste con moltissima difficoltà. E’ esaurito? I lettori hanno fatto incetta delle copie e si sta aspettando la ristampa?

No. L’editore ne ha stampate un numero di copie molto basso (cosa vuole, c’è la crisi…). L’editore, per la cronaca è Ponte alle Grazie, non un “piccolo editore romano”, ma un editore del gruppo Mauri Spagnol (GeMS), un colosso dell’editoria italiana di cui fanno parte Longanesi, Garzanti, Vallardi, Guanda, Corbaccio, Tea, Nord, Salani e appunto Ponte alle Grazie. Non solo. Messaggerie Italiane, uno dei principali distributori sul mercato, ne è l’azionista di maggioranza con il 73% delle azioni. Eppure se andaste in una libreria di una grande città del nordest vi risponderebbero che ci vogliono 8-10 giorni per riceverlo.
Certo, c’è Amazon, e ci sono gli e-book. Questo lo so io che sono un lettore “forte”; lo sapete voi che siete sufficientemente “in” da non spaventarvi di fronte a un kindle, ma se lo pensasse un editore sarebbe paradossale. Il canale preferenziale della vendita di quei pochi libri che si acquistano in Italia resta ancora la libreria. Il libro che non si trova in libreria è un libro morto, un libro che non esiste. Gli editori evidentemente preferiscono sfornare cadaveri (è più conveniente), e magari guardare con aria infastidita al successo imprevisto di un loro scrittore (di cui non ci si ricorda neppure il nome giusto è il titolo del primo libro di Garufi – come racconta lo stesso autore in questo divertentissimo articolo sul suo blog). Salvo poi, vestiti i panni dell’imprenditore (intellettuale per di più) partecipare con sussiego all’ennesimo dibattito del Forum del Libro sulla crisi della lettura nel nostro paese. Sono le regole del gioco della cancerosa catena editoriale che parte dal distributore (il vero dominus dell’industria editoriale – in questo caso distributore ed editore coincidono: pazzesco), passa per l’editore e arriva al libraio. Un libro come Il superlativo di amare non vale nulla, non è un buon affare pubblicarne altre copie e mandarlo nelle librerie. Non è quello che i librai devono vendere. Che interesse hanno?

Le due storie si tengono. La medaglia è la stessa. Il minimo comune multiplo è l’ipocrita pressapochismo, l’incompetenza, la mancanza di coraggio, il non capire nulla di mercato. Imprenditori che non sanno dare valore al lavoro, né a quello degli altri né al proprio. Una deriva suicida che non prevede, nella sceneggiatura, nessuna fine drammatica per i protagonisti. La loro ciambella di salvataggio è già gonfiata. E nessuno che gli intimi al telefono: salite a bordo, cazzo.

Amazon Vs. Hachette: sfida all’OK Corral

reglement-de-comptes-a-ok-corral-1957-06-gAggiornamento. Secondo qualcuno i duellanti non sarebbero tre (Amazon, Hachette, gli Autori Uniti), ma ce ne sarebbe un quarto. Non è chiaro se sia coinvolto nel duello al pari degli altri tre, o se sia da considerarsi in una posizione più defilata, o addirittura in quella del giudice: il lettore.

Il lettore non può più esimersi dal prendere posizione. La querelle lo riguarda, riguarda i suoi diritti, il suo stesso futuro, la sua libertà. Come può starsene con le mani in mano, osservando la guerra come fosse uno spettacolo dato alla TV, sdraiato comodamente dal divano di casa sua? (in altri termini: come può continuare impunemente a comprare libri da Amazon, contribuendo in prima persona all’indiscriminato rafforzamento del più temibile aspirante monopolista della distribuzione libraria?)

Il lettore consapevole, il lettore informato può, anzi deve essere in grado di orientare il mercato e indurre gli attori sulla scena a cambiare il copione sulla base dei suoi comportamenti. Se “una fetta sempre maggiore di lettori decidesse di guardarsi intorno e di scegliere non solo il contenuto ma anche la modalità dei propri acquisti” e si alleassero “con editori meno altèri e più attenti ai servizi, [i lettori] reclamerebbero finalmente la centralità del loro ruolo nell’industria editoriale” (eFFe su DoppioZero: http://www.doppiozero.com/materiali/analisi/amazon-hachette-e-le-responsabilita-dei-lettori). Leggi tutto…

Amazon Vs. Hachette: stallo alla messicana?

18 agosto 2014 1 commento

il_triello_ne_il_buono__il_brutto__il_cattivo__1966__5489Sugli ebooks, sul prezzo degli ebooks, sulla distribuzione degli ebooks, sull’uso, sui diritti, sui modelli commerciali attivi sugli ebooks si può parlare per ore, scriverne per pagine e pagine, organizzare corsi di formazione (cosa che, nel mio piccolo, faccio) e così via. La materia è nuova, fluida, difficile.

Ora ci si mettono anche Amazon, l’editore Hachette, e gli Autori Uniti con una querelle che qualcuno (Mantellini sul suo blog) ha visto come un triste e squallido asilo nido. Chi ha ragione? L’editore, che impone per i suoi libri un prezzo assolutamente fuori da ogni logica (15-20 dollari), o Amazon che per ritorsione si rifiuta di venderli, e di vendere libri del gruppo in generale (anche quelli di carta), scoraggiandone l’acquisto da parte dei suoi clienti? O gli autori che, presi nel mezzo, ritengono di essere i più danneggiati, oltre che i meno responsabili ed esortano i lettori ad un mailbombing diretto contro Jeff Bezos?

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Pazzi unchained

pazzi-scatenati-di-federico-di-vitaPazzi scatenati, di Federico di Vita, per i tipi, anzi, per quei bei tipi di Tic Edizioni, è il libro che vi farà passare la voglia di scrivere un libro (auspicabile), di voler lavorare in una casa editrice (tanto è impossibile, almeno venendone pagati), di fondare una casa editrice (ovvio), di aprire una libreria (a meno che non vogliate andare falliti prima di quanto non immaginiate), di entrare in una libreria (resistete, ha ancora un senso), forse anche di leggere un libro (per lo meno non con la stessa innocenza di prima).

Pazzi scatenati parla in modo aggiornato, competente, ironico, dissacrante, puntuale del mondo dell’editoria italiana, e non per caso la copertina (inclusi i risvolti e la quarta) allude (qualcosa di più) al cinema porno degli anni settanta.

Non si salva (quasi) niente dell’editoria italiana, forse qualche piccolo editore resistente (purché non troppo piccolo: quelli sono i peggio). Non si salva niente della catena editoriale (dalla creazione, alla produzione, alla distribuzione, alla vendita, alle leggi che regolano tutto ciò). C’è amarezza profonda dietro ogni pagina. Non cattiveria, o manie distruttive fini a loro stesse.

Ce n’è per tutti: dai piccoli editori che non pagano mai i loro collaboratori (gli stagisti), che pubblicano libri invendibili e illeggibili, ai grandi editori, ai giovani scrittori, opinioni raccolte da esperti del settore (editori medi e grandi, librai, agenti, critici letterari: al vetriolo, per l’appunto le parole di Guido Vitiello nei confronti dello stato della letteratura italiana e di tutto ciò che la circonda – se vogliamo un po’ generiche e poco argomentate)  alle grandi librerie-supermercato.

Un ritratto in sedicesimo del nostro paese, prima ancora che di un suo particolare settore economico-culturale.

Deve scorrere il sangue

30 agosto 2010 5 commenti

Non a rivoli, fuori. Ma nelle vene, dentro. Deve scorrere il sangue dentro le storie, dentro la letteratura.

A dirlo è Ettore Bianciardi, su Stilos del mese di settembre. E aggiunge, a proposito del suo progetto editoriale "Stelle bianche", che è "l'esatto contrario delle case editrici attuali, perché sarà una casa editrice senza profitto: la letteratura è vita,  la vita è letteratura […] Se leggendo non si sente scorrere il sangue, allora non è letteratura, allora sì è mestiere, ma verrà immancabilmente rifiutata dal lettore. Chiedere un compenso per ciò? Mi sembra assurdo."

La ricetta di Bianciardi? Libri gratis online per tutti, e a pagamento, ma solo per il solo costo di stampa, se uno è proprio fissato con il libro tradizionale. "I nostri libri non saranno nelle librerie […] ma saranno distribuiti dal circuito della passione e della solidarietà".

E il diritto d'autore? "Il diritto d'autore è un crimine contro l'umanità perché toglie al lettore il suo inalienabile diritto naturale di leggere tutto quello che l'umanità produce".

E per finire: "Il romanzo elettronico rende inutile l'editore, almeno l'editore che conosciamo…"

Non sono d'accordo con nessuna di queste affermazioni. Eppure sono un lettore (come si dice: un lettore forte, uno che legge tanto e spende di conseguenza). Dovrei rallegrarmi di questa prospettiva paradisiaca. Leggere senza pagare.
Invece no. Per un motivo molto semplice. Mi disturba la visionarietà irrazionale. Forse alla lunga può risultare utile a far fare scatti in avanti della società culturale (che confrontandosi con un paradosso può produrre energie nuove per verificare la bontà o meno dei vecchi suoi meccanismi). Ma all'atto pratico mi sembra una insulsaggine e una provocazione fastidiosa.
Soprattutto per una ragione: tutto quello che viene detto qui è semplicemente falso.
La storia editoriale del mondo, dall'invenzione della stampa in qua, è storia di un'industria culturale che, a torto o a ragione, piaccia o non piaccia, ha incontrato l'indiscusso favore del pubblico.
Cos'è che rifiuterebbe il pubblico? La letteratura "come mestiere"? Cioè "La solitudine dei numeri primi?" Cioè i romanzi di Coelho? O, precipitando ancora più in giù, i legal thriller? i noir svedesi? Questo è ciò che il pubblico rifiuta?

Il diritto d'autore. Perché uno scrittore non dovrebbe trarre un beneficio economico per quello che fa, che lo occupa magari per dodici ore al giorno tutti i giorni? Di cosa dovrebbe vivere? Dovrebbe fare un altro lavoro? Certo, succede. Ma mica sempre.

Le case editrici. Bianciardi ammette che una casa editrice che scopre nuovi talenti, crede in loro, gli dà fiducia, è una buona casa editrice. Solo che le case editrici, oggi, sono tutte solo stampatori di libri. Dei tipografi. Su questo non si discute e non si argomenta neppure. E' così. Credeteci.

Se ne deduce che la sua casa editrice online e gratis per tutti farà questo: farà scouting, selezione, seguirà gli esordi con attenzione e pazienza, e poi pagherà le persone che faranno tutto questo e pagherà i server e la manutenzione degli stessi. Naturalmente questi soldi non gli deriveranno dalle vendite, che non esisteranno. Giacché non esistendo più l'oggetto-libro l'editore non ha nulla da vendere, giacché un bene immateriale per definizione non si vende. I soldi gli pioveranno dal cielo, probabilmente. Come la manna.

Aguzzate la vista

26 agosto 2010 10 commenti

Queste due vicende si differenziano in un tot di piccoli particolari. Quali?

Tre operai di Melfi lottano con le unghie e con i denti per mantenere il loro posto di lavoro alla Fiat (di cui non condividono nulla in termini di strategie industriali, etiche, rapporti sindacali ecc.).

Vito Mancuso e altri vogliono andarsene dalla Mondadori, il loro editore (di cui non condividono nulla in termini di stategie industriali, etiche, editoriali ecc.)

Un miracolo

Di certe cose è meglio essere consapevoli. Permette di evitare errori, e di coltivare illusioni.
Io, di come funziona una casa editrice, delle scelte editoriali, del gusto del pubblico, delle strategie di marketing, del "fiuto", e forse della letteratura in genere non capisco assolutamente nulla. E’ bene che me lo ficchi nella zucca. E vi dico anche perché.

Se fosse capitato fra le mie mani il manoscritto di Uomini che odiano le donne, dopo che per circa 230 pagine non è successo praticamente nulla di interessante (se non un debole colpo di scena peraltro ottenuto grazie ad una scorrettezza, a un furbata dell’autore – ma non vi dirò quale, al più vi posso rimandare al bel saggio di Giulio Mozzi) non credo che l’avrei mai proposto per la pubblicazione.
Sbagliando della grossa, evidentemente.

E tuttavia è proprio così.
Succede una cosa interessante verso pagina 100, poi di nuovo nulla. Descrizioni dei personaggi appena introdotti (un po’ di background storico-psicologico, un po’ di descrizioni esteriori: come vanno vestiti, dove abitano ecc.), fatti raccontati in uno stile piano, leggiadro, inconsistente. Lo stile ottocentesco più collaudato.

Un libro vincente.
Un miracolo, ai miei occhi.