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Archive for the ‘letture’ Category

In bilico, di Aldo Zargani

Aldo Zargani, In bilico (noi gli ebrei e anche gli altri), 2017, Marsilio

[le letture del martedì di RdB]

Aldo Zargani è un folletto di 84 anni, un merlo canterino che mischia memoria, ironia, ira, sarcasmo, analisi psicologica, sociologia, stupore infantile, pietà, commozione e tante altre cose per raccontare che cosa è significato essere ebrei, più o meno dalle leggi razziali del 1938 al primo dopoguerra, ma anche dopo.

Siamo dalle parti di “Speak, Memory” di Nabokov, dei sogni di Chagall e del film “Un treno per la vita” di Radu Mihăileanu. C’è l’alto e c’è il basso: Wilhelm Furtwangler, Bruno Walter e poveri, pescatori, internati, manifestanti, impiegati antifascisti, carabinieri, venditori di pesce, traduttori, studenti, uomini e donne che parlano solo dialetto. C’è l’Italia: domina la natia Torino, ma appaiono anche Roma e la Sicilia. C’è il mondo, visitato per necessità e per svago: Lugano, Berlino, Gerusalemme, Australia. E i primi turbamenti amorosi.

La lingua è leggera, ma insieme analitica, piena di brio, scherzosa. Alla fine del libro l’autore ringrazia Majakovsij, Szymborska, Gadda, Swift, Leopardi: forse è soprattutto del terzo che si avverte la presenza, sia nel ritmo della prosa sia nell’invenzione delle parole, ad esempio di un bellissimo “spalancagridasbatti” usato come aggettivo di “marcia”. Il racconto “Dies irae” fa venire in mente, per il moto della folla, “Cinema”, uno dei racconti di “La Madonna dei Filosofi”. Appaiono infine tanti matti nelle storie di Zargani, un po’ come ne “Il poema dei lunatici” di Cavazzoni.

Zargani era già noto per “Per violino solo, La mia infanzia nell’Aldiqua. 1938-1945” (1995) e “Certe promesse d’amore” (1997). Riscoprire un gagliardo vegliardo alla sua bella terza prova fa un grande piacere.

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Stoner, di John Edward Williams

John Edward Williams, Stoner, 1965

[le letture del martedì di RdB]

Stonerè la storia della scoperta di una vocazione intellettuale. Il protagonista si emancipa, attraverso lo studio, da un mondo agricolo di povertà, come quello dei romanzi di Faulkner e Steinbeck.

Il professore universitario cerca per tutta la vita di fare ciò che ogni studioso dovrebbe fare: lavorare duramente, far crescere gli studenti più meritevoli, confrontarsi lealmente con i colleghi, scrivere dei libri che ne manterranno la memoria dopo la morte.

Stoner parla di formazioni e passioni intellettuali, di innamoramenti e gelosie, di amori e fallimenti affettivi, di amicizie e odi, di comprensioni intime e incomunicabilità assolute. Il sogno di una vita dedicata allo studio viene messo a dura prova dalla realtà. Ci sono le due guerre, c’è la perdita dei genitori e di un carissimo amico, ci sono relazioni impossibili con i parenti più cari.

C’è soprattutto lo scontro con quanto di peggio possa capitare nella vita universitaria – un collega votato sistematicamente alla denigrazione – e con quanto di peggio possa capitare nella vita matrimoniale: l’unione con un coniuge nevrotico e il disastro dell’educazione di una figlia (a quest’ultima si sarà ispirata Philiph Roth per la figura della figlia dello Svedese in “Pastorale Americana”?).

Williams ha trovato l’equilibrio per tenere insieme la storia. Stoner è un professore modesto, che si ferma al grado di ricercatore: il romanzo racconta, talvolta con velocità altre volte con lentezza – come insegna Calvino – come la vita di una persona normale possa essere sconvolta dalla morte di un amico in guerra; dall’ incontro con la donna che gli rimarrà accanto per tutta la vita; dal malessere strisciante della moglie; dalla ragazza che diventerà sua amante. La normalità di un uomo accanto all’enormità delle cose che gli accadono: questo è il segreto del libro.

Stoner parla di noi, della vita di ogni essere umano, dalla gioventù alla maturità. Le descrizioni di cosa significhi invecchiare, ammalarsi e morire non sono inferiori alle pagine di Roth in “Patrimonio” e in “Everyman”. Nella prima pagina Williams ci dice che nulla è rimasto di Stoner, come pensa Cormac McCarthy dei poveracci che svaniscono nel nulla nei suoi romanzi. Ma sul letto di morte, prendendo in mano un suo libro, Stoner è felice perché “sapeva che una piccola parte di lui, che non poteva ignorare, era lì, e vi sarebbe rimasta“.

E’ lo stesso obiettivo conseguito da Williams con questo grande romanzo.

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Il complotto contro l’America, di Philip Roth

Philip Roth, Il complotto contro l’America, 2004

[dalla nostra redazione culturale]

Nel 1964 Richard Hofstadter, già due volte premio Pulitzer per la storia, pubblicò la raccolta di saggi “The Paranoid Style in American Politics” (Lo stile paranoico nella politica americana). Secondo Hofstadter i politici americani, sin dalla nascita del paese, sono spesso riusciti a convincere l’opinione pubblica dell’esistenza di complotti, di trame, di nemici, accomunati dalla volontà di distruggere la nazione. Hofstadter scriveva avendo presenti fenomeni come il maccartismo e la sua crociata contro i comunisti, o i movimenti anti-massonici, o le tendenze anti-cattoliche, diffuse dai tempi della rivoluzione americana.

Hofstadter è stato riscoperto per inquadrare il fenomeno Trump. Anche lui vede i nemici dell’America, alternativamente, nei burocrati di Washington, nei socialisti, nella stampa, o in qualche potenza straniera. Lo stile paranoico mira a denigrare l’avversario; punta sull’ elettore inclinato, per esempio dopo crisi tipo il collasso finanziario del 2008-2009, ad accusare dei suoi mali la globalizzazione, le banche, le grandi imprese, le lobbies ebraiche, e chi più ne ha più ne metta. Tutto è stato reso più facile da una distribuzione del reddito e della ricchezza divenute più diseguali negli Stati Uniti rispetto a trenta anni fa. Sono fenomeni di tutto il mondo. In Italia si può fare riferimento a chi si preoccupa delle strisce bianche prodotte dagli aerei in volo o della pericolosità dei vaccini. Il personaggio di Maurizio Crozza, “Napalm51”, coglie bene il fenomeno.

Philip Roth parte in questo romanzo dall’antisemitismo diffuso negli anni Trenta, e anche successivamente, negli Stati Uniti. L’ipotesi è che Charles Lindbergh, asso dell’aviazione e fervente isolazionista, partecipi alle presidenziali del 1940, contro la volontà del partito repubblicano, come Trump 75 anni dopo. Alle elezioni Lindbergh sconfigge Franklin Delano Roosevelt.

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Una giornata di Ivan Denisovic, di Alexandr Solzenitsyn

Aleksandr Solzenitsyn, Una giornata di Ivan Denisovic, 1962

[le letture del martedì di RdB]
Ivan Denisovic Suchov è internato in un campo di concentramento. Si sveglia alle cinque di mattina, partecipa all’adunata, si incammina con i compagni per raggiungere il posto di lavoro, lavora in una specie di cantiere, sfrutta la sosta per il pranzo, riprende il lavoro, fa ritorno al campo, subisce il controllo dei detenuti all’entrata della prigione, cena, va a dormire.
Ogni descrizione della giornata resta stampata nella testa, grazie a una prosa sobria, tolstojana.
L’elemento caratterizzante il romanzo è la tranquillità del detenuto, quasi la sua serenità, la sua felicità per poter disporre di una scorza di formaggio da masticare per giorni. Il segno di un uomo che non muore sta nella capacità di mantenersi con la testa fuori dalla mostruosità del gulag. Il racconto è un apologo della grandezza dell’uomo, in grado di restare tale nelle situazioni più orribili. È tragicomica e indimenticabile la scena della costruzione di un piccolo ambiente in muratura da parte di una squadra di internati: senza guanti, quasi nudi, senza attrezzi, alla temperatura di meno trenta sotto lo zero.
Mentre la sera si addormenta, Suchov si sente soddisfatto. La giornata è stata fortunata: non l’hanno messo in cella di punizione; la sua squadra non è stata mandata a lavorare nei posti peggiori; ha rubato una scodella d’avena a pranzo; ha goduto del lavoro di muratura; non gli hanno trovato addosso una cosa che non doveva avere; ha comprato del tabacco; non si è ammalato. Ha resistito. “Era trascorsa una giornata non offuscata da nulla, una giornata quasi felice”.
Un capolavoro.

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La fonte meravigliosa, di Ayn Rand

Ayn Rand, La fonte meravigliosa, 1943

[le letture del martedì di RdB]

randGrande polpettone, che ha venduto milioni di copie negli Stati Uniti (secondo alcuni più della Bibbia), con tutti gli ingredienti del caso: amore, tradimento, odio, gelosia, lavoro, città, ville, case di campagna, uomini, mogli, amanti, figli con padri e mamme non sempre perfetti, barche di uomini ricchissimi. E soprattutto New York, con i suoi grattacieli.

Ayn Rand, scrittrice di culto negli ambienti conservatori americani e quindi tornata in auge con la vittoria di Trump, esprime la sua visione del mondo: la società non esiste, esistono solo gli individui con le loro volontà, le loro utilità, i loro egoismi. Associarsi – in un sindacato o in una corporazione – non ha senso, è la peggiore delle illusioni. L’altruismo è il peggiore dei mali.

Il romanzo è dominato dalla figura di Howard Roark, ispirato a Frank Lloyd Wright: è l’architetto osteggiato da tutti per il talento e le idee, per un credo che non prevede compromessi. È l’eroe senza macchia e senza paura: Roark non accetta lavori dove i committenti pretendano di avere l’ultima parola sulle costruzioni. Roark è circondato da due personaggi che sono il contrario di lui. Il primo è Peter Keating, giovane architetto di successo, legato a Roark da un rapporto ambiguo, prima di amicizia, poi di odio: Keating è l’inetto, l’uomo debole sempre pronto a cercare il potere attraverso il compromesso, sfruttando spesso di nascosto le qualità di Roark. Il secondo antagonista di Roark è Ellsworth Tookey, l’intellettuale umanitario, di formazione socialista, sempre pronto all’intrigo, alla costruzione di alleanze, alla congiura, alla demagogia.

Dalla parte di Roark c’è invece Gail Wynand, l’imprenditore della carta stampata venuto dal nulla, dai peggiori bassifondi di New York. Wynand ha costruito da solo un impero, è l’imprenditore, il tipico “self-made man” della costruzione del mito americano. Arrivato alla soglia dei cinquant’anni vivrà una crisi, superata all’inizio grazie alla fascinazione per Roark. L’intreccio della storia e il destino dei personaggi condurrà alla fine Wynand verso un grande dolore.

La figura forse più interessante del romanzo è Dominique Francon, bella, ricca e annoiata ragazza di New York. La sua storia con Roark inizia con la violenza di lui, che non impedisce a Dominique di innamorarsi. Pur amando Dominique, Roark difende la sua indipendenza. Dominique dovrà passare per storie sentimentali insignificanti e mille ambiguità per dimostrare a Roark di saper crescere, di saper essere a sua volta indipendente, di sapersi staccare dal mondo futile dal quale proviene.

E’ un romanzo scritto durante la Grande depressione americana degli anni Trenta del Novecento e pubblicato pochi anni dopo, ma non troverete una pagina sulla disoccupazione e sulla povertà. Kate, una donna che ha dedicato la sua vita agli altri, viene così apostrofata “Non era più …che la zitella, la lavoratrice, la propagandista di questioni sociali, il classico tipo di donna sfiorita che sdegna i problemi del sesso, chiusa nell’armatura arrugginita della propria virtù, ammantata di dignità, ostile a tutto quanto esula dall’orbita del proprio mondo meschino“. Alla faccia della correttezza politica. Si ha la conferma di quante siano profonde negli Stati Uniti le ragioni culturali della vittoria di Trump.

Il romanzo ha una sua potenza, anche se un editor moderno avrebbe tagliato molte delle quasi 700 pagine (a proposito, la traduzione italiana della Corbaccio è piena di errori di stampa). I personaggi appaiono talvolta caricaturali, a causa dell’ideologia della Rand. Da una parte c’è il bene, rappresentato dall’iniziativa individuale, dal mercato, dalla lotta senza compromessi. Dall’altra parte c’è il male, rappresentato dalla solidarietà, dallo Stato, dagli accordi tra gli esseri umani. Il libro fu presto portato sullo schermo da Hollywood, grazie al film diretto da King Vidor nel 1949 e sceneggiato dalla stessa Rand. Gary Cooper interpretò Howard Roark. Guardate su YouTube l’autodifesa di Cooper-Roark nel processo finale, con l’esaltazione dell’uomo creatore contro il parassita, del capitalismo contro ogni dittatura. E’ un pezzo di alta recitazione, nel clima ormai dominante della guerra fredda.

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Bouvard e Pécuchet, di Gustave Flaubert

Flaubert, Bouvard e Pécuchet (1881)

[le letture del martedì, di RdB] 

flaubertBouvard e Pécuchet (B&P) è un romanzo di una crudeltà assoluta. È la storia di due poveri idioti, che si incontrano per caso a Parigi. Bouvard beneficia di una grossa eredità. I due decidono di comprare una fattoria nel Nord della Francia, dove iniziano a cercare di perseguire gli obiettivi più diversi, dilapidando fortune.

Attraversando lo scibile umano, B&P falliscono in tutto quello che fanno. Agricoltura, arte dei giardini, agronomia, frutticultura, orticultura, distilleria, fabbricazione delle conserve in scatola. Chimica, fisica, anatomia, medicina e filosofia della medicina, passaggio da diete assolute a ingozzamenti illimitati, esperimenti con gli animali – con tentativi di farli accoppiare – studio delle specie, utilizzo del microscopio. Geologia, con discussioni su maremoti, terremoti, vulcani, e altri cataclismi. Litigate con un prete sull’origine della terra e della creazione. Ritrovamento di un cassone rinascimentale e innamoramento per archeologia, studio di cattedrali e castelli, origini della civiltà celtica, ricerca di ceramiche. La casa viene trasformata in un museo. Studio della terra di Francia, dalle origini alle varie interpretazioni della rivoluzione. Storia di Roma, filosofia della storia e scrittura di una biografia di un imbecille. Letteratura, teatro, grammatica: il romanzo storico di Walter Scott, Dumas, romanzi umoristici, Balzac, Racine, Voltaire, la commedia, la tragedia, Victor Hugo, discussioni su cosa sia il bello e cosa sia il sublime. Le speranze del 1848 e la controrivoluzione, passando dall’apparizione degli operai al primo arrivare della reazione, dai socialisti utopisti alla critica del suffragio universale, fino alla caduta della libertà. Delusi da tutto e divorati dalla noia, B&P si innamorano ma finiscono non corrisposti. Educazione fisica, ginnastica, spiritismo, magnetismo, magia, ipnosi, evocazione dei diavoli, fino a sperare nella filosofia: Spinoza, Locke, Condillac, Malebranche, le prove dell’esistenza di Dio di Cartesio, Kant e Leibniz. Ancora una volta B&P si perdono, si confondono e arrivano a pensare al suicidio, salvo essere salvati dalla scoperta della religione: acquisto di oggetti di devozione, pellegrinaggi, dispute teologiche. Pedagogia, educazione, progetto di fondare un istituto per ragazzi con ritardi: nuovi fallimenti.

B&P è una impietosa critica della ragione e della modernità. Flaubert ci dice: se pensate di poter capire qualcosa del mondo studiando e confrontando posizioni diverse, non avete capito nulla della vita. La modernità ha illuso l’uomo: lo ha convinto che accedendo alla libertà, allo studio, alle biblioteche, alle scoperte scientifiche sia possibile imparare e migliorare le proprie condizioni di vita. Questa conclusione è un’illusione: il progresso della conoscenza, dell’educazione e della scienza possono condurre due imbecilli solo all’accumulazione di disastri.

Arbasino considera B&P come il secondo libro più bello del mondo, dopo il Don Chisciotte.”La fascinazione per la betise, per la stronzaggine umana, da nessun autore è mai sentita con un’ingordigia così entusiastica e parossistica”. Si racconta che per scrivere B&P Flaubert abbia letto oltre 1.500 volumi; era consapevole che redigendo il romanzo correva il rischio di diventare come i due protagonisti. Turgenev, Taine, Zola erano preoccupati per lo sforzo compiuto da Flaubert per accumulare i materiali necessari per il libro, che l’autore non vide pubblicato a causa della morte improvvisa nel 1880.

B&P è una delle prime invasioni della saggistica nella letteratura. Nel 1851 erano già apparse le descrizioni naturalistiche delle balene in “Moby Dick”. Ma B&P è una discontinuità assoluta, perché i testi desunti dai saggi sono il romanzo, non ne costituiscono una parte. Si pensi alle successive discussioni filosofiche in “L’uomo senza qualità” e alle contaminazioni di storia ed estetica medievale in “Il nome della rosa”. Ancora Arbasino: “B&P non chiude una strada. Ne apre tante”. Ezra Pound ha scorso un parallelo tra il Leopold Bloom dell’Ulisse e B&P: tutti e tre presentano una gigantesca collezione di assurdità, un’enciclopedia di brani, fatti, approssimazioni, sciocchezze, confusioni, superficialità, ombre di pensieri raccolte in giornali e libri.

B&P è scritto nella stessa maniera perfetta dei precedenti capolavori di Flaubert: ci sono descrizioni indimenticabili di cosa siano la noia in campagna, l’ozio domenicale, le illusioni d’amore. C’è la stessa cura maniacale dei dettagli. Anche il messaggio fondamentale resta lo stesso di tutta la poetica di Flaubert: come Madame Bovary e Frederic Moreau di “L’educazione sentimentale”, B&P falliscono senza redenzione.

Jack Frusciante è uscito dal gruppo, di Enrico Brizzi

Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, 1994

[le letture del martedì di RdB]

brizziQuesto romanzo ebbe grande successo quando uscì, tanto da essere tradotto in più di 20 paesi. E’ una storia di crescita e inquietudine giovanile che rende omaggio al mito del Giovane Holden, continuamente citato (“il vecchio Alex”, “la vecchia Jane”, “come direbbe il Caulfield”, “dove vanno le anatre d’inverno?”). C’è poi il tributo a Bologna: via Zamboni, via Collegio di Spagna, i tramonti dietro San Luca, via Codivilla, via San Mamolo.

Siamo, direbbe Guccini, tra la via Emilia e il rock, celebrato da Anarchy in the UK dei Sex Pistols, dai Clash, dai Negu Gorriak, dagli Splatter Pink, dai Pink Floyd, dei Red Hot Chili Peppers, dai Pogues, da Jimy Hendrix. E poi ci sono i registi di riferimento: Allen, Scorsese, Coppola, Kubrick, Verhoeven, Malle, Kurosawa, Kaurismaki, Stone, Fellini, Ferreri, Moretti. Tutto è condito dallo stile, che riproduce il vernacolo giovanile di quegli anni, con un non-uso della punteggiatura, fino a diventare oggetto di tesi di laurea: lettere maiuscole ignorate, virgole e punti a capo inesistenti, lunghe parentesi.

Il protagonista Alex è un diciassettenne di sinistra che usa come intercalare “faccia di merda liberale” e “rotaryani stronzi luridi”. Odia la mafia e guarda ai centri sociali; non è tenero con il partito di Bologna e non sopporta né lo scudo crociato né il garofano. Alex è alle prese con le pene d’amore e le incomprensioni con l’altro sesso. Per fortuna c’è la storia con Adelaide, detta Aidi, nell’estate tra il terzo e il quarto liceo, prima che la ragazza voli negli USA per l’anno scolastico all’estero. La storia d’amore, per nulla carnale, quasi da dolce stil nuovo, è una delle cose migliori del romanzo. Per la prima volta, e sempre rimanendo in uno stato confusionale, Alex cerca di capire cosa sia la felicità, parlandone anche nel confessionale, in una delle scene più comiche del romanzo. Tutto è condito dall’ironia e dall’impossibilità di prendersi troppo sul serio. Siamo alla fine della prima Repubblica, dice Alex, e anche l’Italia non sa bene dove andare.

Si può rileggere la storia di Jack Frusciante come un piccolo trattato antropologico di un giovane bolognese in un momento di passaggio della società italiana. Quasi una vita quotidiana a Bologna all’inizio degli anni Novanta: è la strada che Brizzi imboccherà esplicitamente con i successivi “La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco” (2008) e “La vita quotidiana in Italia ai tempi di Silvio” (2010).

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Libri nel 2016

Classifiche. Come sfuggire? (semplice: basterebbe astenersi).

Ma la tradizione è tradizione. Per cui anche quest’anno pubblico la lista dei libri letti nel 2016 cui ho assegnato 4 o 5 stellette su Anobii.
Ma con una novità.
Quest’anno ho elaborato un sofisticato, quanto abbastanza inutile, algoritmo con cui calcolare l’indice di popolarità dei libri (sempre utilizzando le valutazioni degli utenti di Anobii – attenzione: di popolarità, non di merito).
L’algoritmo pesa il valore totale medio delle stellette ricevute da ciascun libro in base al numero di lettori (in rapporto al numero totale di lettori votanti i libri che prendo in considerazione), all’anno di pubblicazione (un numero alto di lettori di un libro recente vale di più dello stesso numero ottenuto in un numero maggiore di anni – per i classici considero l’edizione più vecchia censita da Anobii – che per fortuna come numero di possessori e di votanti considera il totale di tutte le edizioni disponibili) e alla distribuzione dei voti (valgono di più i libri che ricevono molte 5 stelle e pochi zero, per farla molto breve). Il limite di questo algoritmo è che i valori cambiano abbastanza di continuo, per cui andrebbe aggiornato almeno su cadenza settimanale (o quindicinale), la qual cosa sarebbe possibile solo se Anobii (quindi Mondadori) esponesse i suoi dati in modo aperto, strutturati in modo che chiunque possa riutilizzarli.

Dunque. Tanto per cominciare i  libri con 4-5 stellette quest’anno non sono stati molti: 10 (l’anno scorso 14)

5 stellette:
La vita davanti a sé, di Romain Gary

4 stellette:
Le particelle elementari, di Michel Houellebecq
I miserabili, di Victor-Hugo
Martin Eden, di Jack London
Roderick Duddle, di Michele Mari
Io sono vivo, voi siete morti, di Emmanuel Carrère
Zero K., di Don DeLillo
Una donna senza fortuna, di Richard Brautigan
Prendere il volo, di Adrien Bosc
La mia vita è un paese straniero, di Brian Turner

E questa è la classifica con l’indice di Anobii. Fra parentesi il primo valore è l’Indice, seguito dalla posizione assoluta nella classifica generale di tutti i libri (presenti sul mio scaffale, non di tutti i libri pubblicati), che al momento sono 157, quindi, per dire, La mia vita è un paese straniero al momento è al 152° posto su 157…. Al primo posto c’è Uomini che odiano le donne (indice di Anobii 25.720,56), al secondo La versione di Barney  (15.647,34), al terzo Kafka sulla spiaggia di Murakami (10.647,68). Ultimo… non lo dico perché è un’amica… il cui libro, oltertutto da novembre 2015 – quando l’ho inserito – ad oggi non ha aumentato i suoi lettori (e questo è un dato interessante).

Le particelle elementari (5039,917 / 11)
I Miserabili (4056,171 / 17)
La vita davanti a sé (3840,858 / 18)
Martin Eden (2993,358 / 20)
Roderick Duddle (784,196 / 68)
Io sono vivo, voi siete morti (691,222 / 71)
Zero K (283,003 / 104)
Una donna senza fortuna (146,511 / 126)
Prendere il volo (41,000 / 148)
La mia vita è un paese straniero (14,000 / 152)

Buon anno e buone letture a tutti!

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Zero K, di Don DeLillo

delilloDopo Underworld Don DeLillo ha concentrato la sua scrittura in brevi romanzi dalla lingua ricercata, densi fino a essere duri, come sonate da camera scritte nel linguaggio atonale che nulla concede al piacere della lettura, o dell’ascolto: stridenti, grumi di dolore, di inespressività, di aporie esistenziali. Body art, Cosmopolis, L’uomo che cade, Punto Omega. Sembrava che dopo il capolavoro enorme non potesse, o non volesse cimentarsi in un romanzo altrettanto totalizzante. Come se avesse perso la fiducia nella forma-romanzo. I tempi erano cambiati. C’era stato l’11 settembre, sembrava che il piccolo racconto lungo da camera fosse più adatto a porsi come forma per il proprio pessimismo.

Con Zero K DeLillo recupera un modo di raccontare più fluido. Torna a dare ai suoi personaggi un’ampiezza narrativa e alla storia la dimensione estesa di un racconto compiuto: di nuovo un vero romanzo. Un romanzo, comunque, doloroso e cupo.

Raggiunge questo obiettivo scegliendo il punto di vista del più lucido, razionale, scettico (non per questo meno problematico) dei suoi personaggi, Jeffrey Lockhart, figlio di un finanziere miliardario che, per amore della sua compagna ammalata e morente, sceglie di abbandonare tutto e di seguire la donna nel suo destino di morte, accelerando i tempi della propria dipartita. Sia lui che lei in realtà sono cavie di un progetto di rigenerazione attraverso un complesso meccanismo di crioconservazione. Congelati i loro corpi, e probabilmente le loro coscienze, in un futuro chissà quanto lontano, rinasceranno a nuova vita (Zero K  si riferisce infatti allo zero assoluto, espresso in gradi Kelvin).

Il progetto Convergence è situato in un luogo desertico, in un punto sconosciuto del Kazakistan, o pressappoco. Una struttura ipogea avveniristica, che ricorda i film di 007 o le stazioni abbandonate di Lost, attraversata da lunghi corridoi con porte che si aprono su stanze vuote (“devo aver bussato alla porta sbagliata” dice Jeffrey a un certo punto; “sono tutte la porta sbagliata” gli risponde un tale in giacca, cravatta e turbante). Ovunque, enormi schermi da cui vengono trasmesse in continuazione immagini di disordini, guerre, attentati, morti, devastazioni naturali: una CNN muta e infinita che sembra nutrire con lo spettacolo della follia contemporanea la lunga attesa del trapasso. Nella stazione si aggirano figuri inquietanti, membri di una setta folle, ma non pericolosa, che anela alla fine del mondo come la speranza di un Nuovo Inizio.
Jeffrey si trova lì chiamato dal padre, con il quale non è riuscito mai ad avere un rapporto né fecondo né facile: molti anni prima quello aveva infatti improvvisamente abbandonato la famiglia. Il ragazzo era quindi cresciuto con la madre, superando il trauma sviluppando sin da piccolo l’ossessione di dare un senso alla realtà. Da qui l’abitudine di trovare il nome giusto per ogni cosa o persona, e darne la definizione esatta. Ovvio che nel corso degli anni abbia sviluppato nei confronti di suo padre diffidenza per la sua ostentata ricchezza e per le sue scelte professionali o esistenziali.
Ora però, dopo  non averne mai condiviso la vita, si trova a doverne condividere la morte, la lunga morte cui quello va preparandosi con lucida e amara consapevolezza. L’uomo d’acciaio, il costruttore tutto d’un pezzo di imperi economici è oggi un uomo perduto e disperato per l’imminente scomparsa della donna che ama.

Il figlio non perde mai il distacco lucido e scettico verso questo assurdo progetto (la morte assistita, la congelazione); non si lascia tentare neppure per un istante dalle malie dei guru di questa ideologia iper-tecnologica mista ad aspirazioni new age: rimane estraneo, incuriosito al più, dalla rappresentazione della morte differita, di cadaveri-non-cadaveri che religiosamente, deprivati di ogni organo sensibile, aspettano. Cosa?
Jeffrey vive la sua vita separata dal destino dell’ingombrante genitore a cui piacerebbe pianificare il suo futuro; vive a New York (bellissimo il contrasto fra il deserto e la metropoli, chiassosa, piena di relitti umani tanto quanto quel mondo sperduto e quasi surreale), ha una storia con un’insegnante che ha un rapporto difficilissimo con il figlio adottivo, rifiuta le offerte di lavoro sponsorizzate dal padre scegliendo alla fine di lavorare part-time per un piccolo College del Connecticut come “Incaricato dell’ottemperanza e dell’etica“. In lui vive la speranza (sconfitta?) di un ritorno alla ragione, alla semplicità delle cose da dirsi, di viversi quotidianamente, alla scoperta fantastica del mondo visto con gli occhi di un bambino.

Nel romanzo vive fra le righe la follia dell’uomo che gioca con il tempo per rinunciare a se stesso in cerca di un nuovo Io; risuonano le domande fondamentali a cui non si sa più dare risposta; aleggia la paura di perdersi se non si riesce più a nominare il mondo, rimasto senza parole utili a descriverlo (“Mi pare di essere qualcuno”… “Sono una persona che dovrebbe essere me”…) e dunque senza riferimenti che certifichino la sua esistenza, come la donna congelata, il cui flusso di coscienza viene registrato come un segnale debolissimo dallo spazio ma in, fondo, pieno di speranza: “Ma io sono chi ero”… “Così, in continuazione. Occhi chiusi. Corpo di donna in un guscio”.

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Per un ritratto dello scrittore da giovane, di Leonardo Sciascia

Leonardo Sciascia, Per un ritratto dello scrittore da giovane, 1985

[le letture del martedì di RdB]

Leonardo Sciascia. © Giuseppe Leone

Sciascia ha molto amato Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), lo scrittore e critico letterario che nel 1931 lasciò l’Italia per gli Stati Uniti. ‎Partendo dal ritrovamento di alcune lettere giovanili di Borgese, nel 1985 Sciascia ha pubblicato questo breve racconto.

Scopriamo il genio precoce di Borgese, affermatosi già in giovane età. Sciascia ne ricostruisce la formazione, che avrebbe portato al capolavoro “Rubè”: Stendhal, Tolstoj, Omero, Tasso, Gogol, gli altri grandi russi. Attraverso Borgese, Sciascia si diverte a presentare le sue idiosincrasie nei confronti di D’annunzio e Croce, esaltando i suoi autori preferiti, Leopardi e Brancati. Lo stesso Borgese ebbe forti incomprensioni con Croce, che pure lo aveva lodato all’inizio della sua carriera.

g-_a-_borgeseC’è il rimpianto per una Palermo che non esiste più, quella a cavallo del Novecento. C’è soprattutto una descrizione affettuosa delle famiglie borghesi del tempo, quando i giovani lasciavano le campagne per andare all’università, ospiti dei parenti che vivevano nel capoluogo. Ecco quindi i riti palermitani, in particolare nella cucina: i galletti “abbracciati’, vale a dire cotti alla brace; i carciofi domestici; le uova fritte “ad occhio” o amalgamate col formaggio in frittata o sode; il burro, considerato “di sapore ineffabile e per sopraffini palati”; le cassate; i manderini; i pirittoni, che sono “grandi cedri come se ne vedono nel chiostro di San Giovanni degli Eremiti”; le sfogliate o sfogli, “torte con un impasto di cioccolato e formaggio pecorino fresco“.

Insomma, un piccolissimo affresco della questione che Sciascia nella sua vita ha avuto più a cuore: la Sicilia e il carattere dei siciliani. Nel descrivere Borgese a Berlino, concorda con Brancati che il siciliano “anche nei momenti in cui può esser felice trova motivo di infelicità nella paura che quella felicità debba finire“. È la stessa concezione della cultura greca, dove gli eroi più invincibili sanno che gli dei, invidiosi del successo degli uomini, prima o poi li puniranno.

Sciascia condivideva la visione del mondo di Borgese, profondamente siciliana, come espressa in lettera del 1912: “Sono di quelle esperienze che … c’invecchiano utilmente; … si matura quella concezione serenamente pessimistica della vita, senza la quale non si è che avventurieri”. Sembra già di sentire il Principe Tomasi di Lampedusa, una cinquantina d’anni prima.

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