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Archive for the ‘testi’ Category

Lieto fine?

Si era addormentata su un fianco. Sembrava morta. Enorme, bianca, mezza sott’acqua, ma non pareva ne soffrisse.

L’hanno tirata su a forza. Si capiva benissimo che non ne aveva voglia. Ha opposto resistenza con la forze del proprio peso, dell’ingombro esagerato da vecchia matriarca che sa perfettamente quello che vuole, rimanendo perfettamente immobile, rigida, lo sguardo spento, innocente e ironico. L’hanno lasciata lì, a bagnomaria per un altro po’. Ok, va bene, sembrava dicesse, con lo sguardo tagliato dalla linea di galleggiamento, furbo e annoiato, di chi la sa più lunga: se per voi va bene, per me non c’è problema.

L’hanno imbracata come se non si reggesse più in piedi, e lei li ha lasciati fare. Senza opporre mai resistenza, senza mai collaborare. Fate voi, se proprio ci tenete.

Venivano ad omaggiarla da tutte le parti del mondo. Le si mettevano proprio di fronte, sul molo. All’asciutto. Lei li guardava con un po’ d’invidia, costretta com’era a starsene per metà a mollo e per metà al sole cocente, o esposta alle intemperie. Venivano ad ossequiarla e la sua regale indifferenza era quanto sapesse restituire. E aveva ragione, perché non c’era riguardo negli scatti dei suoi ammiratori. Venivano a spiare e a fotografare la sua sofferenza, e ne godevano, o al massimo la ignoravano, godendosi qualche raggio di sole caldo.

Quel Nick Sloane,  lui sì che era un signore. Le usava ogni cortesia, la trattava coi guanti bianchi. Ah, fosse stata più giovane. Lui sapeva come parlarle, ne riconosceva ogni diritto e la rispettava. Quando tornava a casa, dalla moglie, calava nella baia una tristezza senza rimedio. Ora Nick l’ha tirata su. E lei ne ha assecondato lo sforzo, in fondo non vedeva l’ora. Ci sono voluti pochi giorni. Uno sforzo tremendo, ma alla fine, appoggiandosi al suo braccio galante ce l’ha fatta. La prua, che per due anni non aveva fatto altro che ingurgitare acqua salata e pesci e plancton e ogni sorta di sudiciume marino, ora può tornare a respirare l’aria salmastra e assecondare il vento libero del mare.

E poi all’improvviso decide che è arrivata l’ora. Si gira piano, ma in modo deciso e irreversibile. Con una scrollata di spalle, raccogliendo le ultime forze, volta le spalle all’isola dove l’hanno tenuta incatenata per più di due anni. Lentamente, aiutata da quei ragazzi generosi e così disponibili, tenuta sottobraccio da Nick, scortata da gentilissimi rimorchiatori, un metro dopo l’altro, senza indugi né rimorsi né rimpianti. La prua al vento, si muove come sempre ha fatto, com’è scritto nel suo destino, prendendo quello che le spetta di diritto: il largo. Imponente, elegante, enorme, trionfante.

Tre, quattro giorni e arriverà in un altro porto. L’accoglieranno di nuovo con le sirene, e gli spruzzi d’acqua? Suoneranno inni, le lanceranno corone di fiori? Le faranno spazio e avanzerà fra ali di folla, di imbarcazioni più piccole e agili, ma meno nobili. Attraccherà e si riposerà fiera del suo ultimo viaggio. Si riposerà. Aspetterà che Nick venga a trovarla ancora. Si riposerà, tanto per cominciare, poi si metterà a nuovo. Ne ha proprio bisogno. Sarà una sosta breve, ha passato troppo tempo in letargo. Tutto per un inchino. Che se fosse stato per lei… Un’umiliazione da circo. Roba che nemmeno Buffalo Bill, nella sua vecchiaia triste da buffone. Ma per chi mi avevano preso? Dirà fra sé e sé, schizzando putride macchie d’olio rancido sulla superficie dell’acqua torbida del porto di Genova.

Lì sapranno come trattarmi, come si tratta una vecchia nobildonna come me. E‘ quello che pensa ora che si trova ancora in mare aperto, appena oltrepassata la Corsica, diritta e sicura, solo un po’ zoppicante. A Genova mi farò bella, e tornerò ad essere quella che sono. Una regina immortale. Ho un futuro davanti. Mi fido di lui, di Nick, mi fido di questi ragazzi così gentili. E’ bello sapere che hanno tutta questa cura di me, e viaggiare è tutto quello che so fare. E lo farò per sempre.

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Anno bisesto

Mi piace il 29 febbraio. Chi non vorrebbe essere al suo posto? Se ne sta nascosto da qualche parte, sigillato nel suo mistero, e come un fantasma metodico di un castello scozzese, ogni quattro anni si affaccia per farsi un’idea di come vanno le cose, qui fuori. Stanco e un po’ controvoglia, disciplinatamente si mette in coda ai suoi simili, gli altri esausti ventotto giorni di febbraio, sgomita per far scivolare un po’ il primo marzo e se ne sta lì, gelido, scostante, con la sua altezzosità aristocratica di chi può permettersi il suo isolamento. Nessuno verrà a infastidirlo, lo aggireremo un po’ scaramantici non vedendo l’ora che se ne torni nel buio del suo esilio. A nessuno verrebbe mai in mente di programmare la firma di un trattato internazionale, la stipula di un contratto da ricordare, un matrimonio, un divorzio, il primo bacio. Sarebbe da suicidi. C’è chi ci nasce, ma sono sicuro che le autorità civili chiudono un occhio e acconsentono che il lieto evento sia registrato un giorno prima o un giorno dopo. Forse esistono delle disposizioni scritte al riguardo.

Annoiato, alla fine della giornata, passata a evitare il prossimo ed essere evitato, deluso e allo stesso tempo rincuorato deciderà che tutto sommato non ne vale proprio la pena e che potrà starsene tranquillo nel suo letargo per altri quattro anni. Non si sarà perso granché.

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Capitolo uno

[Capitolo uno. Forse. Di un libro che è idea allo stato nascente. Per ora una sequenza di fotogrammi, dedicati a chi, come me, ogni mattina attraversa la Stazione Termini della metropolitana, Linea A, a Roma]

Ogni mattina Emma scende nella caverna devastata da mesi, anni di lavori che non finiscono e non finiranno mai. Controsoffitti troppo bassi, o troppo alti, spazi troppo vuoti, troppo piccoli o troppo grandi, soffitti di lamiere provvisorie, dai quali fuoriescono grumi di schiuma chimica purulenta, come esplosi e coagulati per tappare buchi provvisori, schiuma che a ben guardare si arrotola anche, pallida, lungo i gradini delle scale, per sigillare fragili interstizi, muri scrostati, anneriti da una muffa porosa, antri, improvvise cavità, spelonche, pile di grossi mattoni grigi a delimitare futuri depositi o nicchie, ripostigli, cabine elettriche, e cavi di ogni spessore e di ogni materiale e colore, rossi, verdi, blu, arancioni, neri, fili tesi, allentati, ondulati, sorretti da mensole di metallo o da chiodi di venti centimetri, buchi nei muri sventrati che rivelano mondi oscuri, squarci sui soffitti, feritoie nelle pareti, fori perfettamente rotondi, o perfettamente triangolari, o perfettamente irregolari, pavimento dal linoleum strappato, sconnesso, appena rifatto e già scivoloso, tiranti in sospensione, putrelle aggettanti da mura provvisorie, catene, porte di fil di ferro, chiodi, viti, polvere di calce, voci, echi, la radio e la televisione a circuito chiuso che trasmette pubblicità, come ignara della devastazione che fa eco alle voci rituali, meteo, ultime notizie, oroscopo. Tubi rosso fuoco dell’impianto antincendio. Lamiere temporanee, griglie di alluminio destinate a sostenere muri, coperte malamente da sottili strati di cartongesso sfilacciato sui bordi e incompiuto. Smisurate serpentine di condotte dell’aria, lucide, che si snodano lungo i corridoi, se ne seguono i percorsi a zig-zag, si percepisce già l’aria incanalata all’interno schizzare via in una fuga ininterrotta, sfinita e senza scopo, spaventose murene dalla bocca famelica che si aggirano lungo limacciosi e oscuri corsi d’acqua, così enormi che gli uomini alti le sfiorano con la testa; lampade al neon pendenti, attaccate al muro grazie a fili elettrici scoperti, aggrovigliati, annodati, su se stessi e su altri fili colorati, che seguono itinerari disegnati da un aerografo sfuggito al controllo. Plafoniere fissate ad aste lunghissime che piombano da altezze mai viste prima, da soffitti messi a nudo. Pannelli lucidi, color latte rancido, applicati in modo discontinuo sopra le pareti come se avessero fatto male i conti e fossero finite in anticipo, giustapposte al vecchio travertino senza neppure aver fatto la fatica di una sommaria scartavetrata, lasciando intatti grafiti, cuori, date, firme e amori, incisi per l’eternità o fino a quando, per lo meno, non verranno alla luce per merito di un archeologo di un secolo futuro lontanissimo, che solleverà i rivestimenti ancora avvinghiati ai muri malgrado l’erosione delle muffe, dei detriti trascinati dalle acque reflue che nel frattempo hanno reso quella che era stata una stazione della metropolitana un putrido acquitrino o una versione postmoderna della Domus Aurea, scavata fra emozioni e pareri contrastanti alla ricerca dei segni di una civiltà morta.

Uno scheletro disseminato da una tempesta in un deserto, solo che qui, nelle grotte della stazione Termini della metropolitana di Roma, non c’è il vento ma in compenso c’è la pioggia: l’acqua penetra all’interno di intercapedini friabili, si raccoglie gocciolando dentro secchi di alluminio disseminati lungo il percorso dei passeggeri, rivoli d’acqua che brillano vicino ai binari, sul fondo di banchine da cui sono state divelte le mattonelle, e si può inciampare e si inciampa, Emma, infatti, inciampa, poggia i polsi in modo innaturale, li piega verso l’interno del braccio, entrambi, dopo aver lasciato cadere la borsa di pelle e i giornali. Che idiota. Un dolore pungente, a ondate, fino nel cervello, da far mancare il fiato. Ma almeno, per un po’, pensa immediatamente, come se non stesse aspettando altro, potrà evitare di scendere giù nella grande spelonca grigia, schizzata di macchie di vernice bianca, e da luci cupe, un buio ravvivato da isole di luminescenze giallognole, il cantiere della rinnovata stazione della metropolitana che l’ha accolta nella sua precarietà per due anni, ogni mattina, e ogni pomeriggio, trascinandola nella corrente instabile di passeggeri smarriti, instradati nei percorsi che gli addetti al traffico pedonale delimitano con fili elastici allungati o accorciati a seconda delle necessità. Scendere dal vagone della metro o risalirvi alla fine della giornata è come intraprendere o terminare un viaggio iniziatico, un battesimo ogni giorno rinnovato e rimosso, un passaggio dalla luce al buio, in cui ognuno è sacerdote del buio, o regina delle notti, e viceversa.

Perché abbia scelto di viaggiare ogni giorno attraverso queste profondità infernali, quando avrebbe potuto disporre se non dell’auto di servizio (cui in ogni caso avrebbe avuto diritto) almeno del posto auto nel garage proprio accanto alla sede del giornale, non si capiva. Certo era una cosa che aveva avuta chiara da subito, come si prende l’ombrello quando piove. Avrebbe preso la metropolitana, sarebbe stata una qualunque, si sarebbe mescolata alla folla di cui avrebbe ascoltato i commenti ai fatti del giorno, i desideri, le ansie, le paure, avrebbe spiato negli occhi le fobie e le speranze. Marcello, suo marito, disse solo “sei una snob”.

Andare a dirigere un giornale politico non era come aver scalato i gradini della scala sociale, diceva lei. Era un impegno etico gravoso, una responsabilità.

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Da una finestra buia

2 dicembre 2011 1 commento

Penso con orrore che il mio dirimpettaio, se lo volesse, saprebbe tutto di me. Gli basterebbe starsene affacciato alla finestra, ad esempio la sera, poco prima di mezzanotte, l’ora in cui immancabilmente io vado a dormire, da alcuni anni a questa parte. Standosene lì vedrebbe il mio andirivieni segnalato dall’accendersi e dal successivo spegnersi delle luci nelle stanze che attraverso sempre nello stesso ordine: dal salotto alla cucina, dalla cucina al bagno, attraversando il corridoio, dal bagno di nuovo al corridoio per arrivare in camera da letto: il mio rituale (rassicurante, penso), accompagnato dalle mie staffette luminose che anticipano i miei passi, facendo a modo loro festa alla mia fatica.
Acceso spento, acceso spento, entro ed esco, ora, per esempio, nella camera da letto, accendo la luce generale, poi mi avvicino al comodino, spengo la luce generale, accendo quella del comodino: una sequenza costante, un balletto da finestra a finestra dove, chi guarda, può seguire il rincorrersi di gesti ripetuti e non privi di una loro grazia. Cosa potrei mai fare a questo punto, quando sono in bagno, se non uscirne, ed entrare nella camera da letto, e cosa potrei mai fare, dopo aver spento la luce generale e acceso quella del comodino, se non alzare le coperte e il lenzuolo, infilarmi nel letto freddo e mettermi a  leggere, o pensare o a pregare? Il mio vicino avrebbe vita facile, nel guardarmi dalla finestra di fronte. Potrebbe indovinare ogni mio gesto, con un’espressione che so di sufficienza e imbarazzante superiorità, fino ad anticipare il mio ultimo passo, il buio ultimo, verso mezzanotte e un quarto, mai oltre. A questo punto lui saprebbe già che non vedrebbe accendersi più nessuna luce, per stanotte.
A quel punto lui potrà chiudersi in casa, e abbassare le serrande (cosa che io non faccio perché non amo il buio, anzi mi piace il chiarore azzurro e giallo della strada) e andarsene a letto strisciando le pantofole, più per pigrizia che per stanchezza. Chiudere tutte le imposte della casa, controllare minuziosamente, fra la mezzanotte e un quarto e mezzanotte e venti,che nessuna rimanga aperta, perché è terrorizzato dall’idea che io, che sono il suo dirimpettaio, me ne stia alla finestra buia, dopo aver spento la luce del comodino, l’ultima, a mezzanotte e un quarto, a spiarlo.
Così, nel buio, a tentoni raggiunge il bagno, poi torna verso il salotto, attraversando il corridoio, poi in cucina, qualche volta squilla il telefono, anche molto tardi: ne porta sempre uno con sé, nella tasca dei pantaloni, pigia inavvertitamente i tasti, che suonano per ricordargli di stare più attento.
Quando ha finito di fare il giro ed essersi accertato di aver chiuso tutte le imposte, ora che finalmente potrebbe accendere le luci, preferisce rimanere al buio, perché teme che dalle fessure delle vecchie serrande di legno, possa strisciare fuori una luce, sottile e maligna. Sa benissimo che ogni precauzione è inutile: non sarebbe difficile per me che sono il suo dirimpettaio andare dietro al suo percorso abitudinario, verso mezzanotte e venti, dal bagno alla cucina al salotto, seguendo il rumore delle serrande che via via vanno abbassandosi: cosa potrebbe fare ora, dopo che l’ultima serranda ha toccato il davanzale, se non avanzare lentamente strisciando lungo il muro e dirigersi verso la camera da letto, scostare la coperta e il lenzuolo e infilarsi nel letto freddo con una punta di acidità e un’amarezza disillusa? Sono anni che fa così, nel terrore che il suo dirimpettaio lo spii, dalla finestra buia.

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Se fossi

Se fossi una donna
m’innamorerei di me
che con due dita
tengo la giacca sulle spalle
nel sole del pomeriggio di Roma.

Se fossi come te
stato appoggiato sul palmo
della mano di questa città
m’innamorerei dei viali
alberati nei pomeriggi di maggio
mentre li attraverso a testa alta.

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Non vi curate di quella canaglia

[quello che segue è un brano da un romanzo che con ogni probabilità non vedrà mai la luce. Il titolo provvisorio è L’Assedio. I personaggi del dialogo sono il Cardinale Antonelli, segretario di stato del papa Pio IX, e Lorenza Sciarra, nobildonna romana. I fatti raccontati si sono realmente svolti la sera del 17 novembre del 1848, a Roma]

Posso raccontarvi una cosa divertente che mi è avvenuta? Giusto la sera della rivolta, qui in piazza. Eravamo nella stanza di Sua Santità, quando abbiamo visto accendersi la luce come per un tramonto ritardato…

I fuochi ardevano al centro della piazza già da molte ore, appena scesa la  precoce penombra dell’autunno. I volti degli uomini e delle donne che brandivano torce e coltelli, lance e archibugi si accendevano di riflessi infernali, e le bocche sformate dalle grida accentuavano la forza drammatica di quella rappresentazione. Come se fossero anime espulse dalle viscere di una fucina di diavoli imbizzarriti e vendicativi.
A un tratto nella folla si formò come una bolla, un bulbo liquido che si apriva e si richiudeva al passaggio di qualcosa che dall’alto, da dietro le finestre né il Papa, né il cardinale Antonelli, né il Marchese Sacchetti, né l’ambasciatore di Spagna Martinez de la Rosa anche a causa del buio della sera poterono distinguere.

A difesa del palazzo si erano schierati gli Svizzeri, in gran numero, con gli sguardi impenetrabili nascosti dagli archibugi tenuti diritti davanti a sé. Il popolo li provocava, lanciandogli pane e pietruzze estratte dal terreno fangoso. Neppure loro potevano distinguere qual era la ragione del movimento che stava facendo ondeggiare la folla, ma seguendo l’istinto avevano cominciato a caricare le armi.
–br–

Si aprì la porta. Nella stanza del pontefice fece ingresso il primo ministro Galletti, seguito da altri cinque deputati, ambasciatori delle richieste del popolo. Galletti, per il quale il papa nutriva una viscerale antipatia, aveva appena preso la parola che Pio IX disse Basta così, senza neppure ascoltare le richieste del popolo, e di seguito a lui l’ambasciatore di Spagna, ostentando il coraggio che chiunque sa esibire ben al riparo dalla folla inferocita, si mise a gridare: Signori, ritornate dai capi dei ribelli, e dite loro che dovranno passare sul mio cadavere prima di arrivare alla sacra persona del pontefice: ma ricordate loro che la vendetta della Spagna sarà terribile!
Pio IX voltò le spalle all’ambasciatore e si sedette al suo tavolo. Il cardinale Antonelli, di seguito alla delegazione, lasciò la stanza.
Pochi minuti dopo la risposta del papa aveva raggiunto la folla. Il boato crebbe e si fece rabbia. Si udirono spari di moschetto.
Il Cardinale aveva intanto raggiunto il portone. Urlò alle guardie: Fate vedere che siete fedeli al Santo Padre, e che non vi curate di quella canaglia! E le guardie fecero fuoco.

Quello che la folla aveva lasciato passare, e che le guardie non erano riusciti a scorgere, a causa della gente e dell’oscurità, era un cannone, che era stato sistemato non lontano dalle mura del palazzo,  proprio davanti alle statue di Castore e Polluce, puntato verso l’alto. Sparò e dopo il boato si fece silenzio. Poi piano piano ripresero le grida, ma erano sparute e si poteva quasi individuarne le origini. Poi un secondo boato. Il Cardinale si fece largo fra gli Svizzeri e uscì sulla piazza urlando Fuoco fuoco! Non meno di una dozzina di uomini delle prime linee caddero in terra, chi ferito, chi ucciso, fra il sangue che schizzava dalle ferite e le urla delle donne e degli uomini che accalcandosi cercavano riparo dietro le statue monumentali dei cavalli.  Antonelli si aggirava come preso da un’indomita frustrazione. Il crepitio dei moschetti lacerava l’aria e poi ci fu un terzo scoppio.
Dalle Scuderie, di fronte al palazzo, uscì un altro drappello di svizzeri armati e senza aspettare l’ordine scaricarono i loro proiettili sulla folla, prendendola alle spalle.
Nella stanza del papa nel frattempo era arrivata la notizia che vi erano state vittime anche all’interno del palazzo. Martinez de la Rosa, impettito e vigoroso, arginava la paura e la rabbia con uno scudo di parole. Sua Santità vedrà ripagato con il sangue della Spagna quello versato in questa luttuosa giornata. Il papa lo rassicurò, appoggiando la sua mano sul braccio, che non ce ne sarebbe stato bisogno.
La folla sembrava essersi calmata. Il cannone era stato tirato all’indietro e fatto scomparire prima che le guardie se ne potessero impossessare. Le donne, chine sulle vittime piangevano e urlavano impotenti. Il Cardinale Antonelli sfidava la furia del popolo aggirandosi nervoso e famelico davanti al reggimento di svizzeri che si era ricomposto e ora faceva tacere le armi.
Una donna gli si rivolse straziata dal dolore: Non lo vede che sta morendo? Antonelli la fissò, inspirando l’aria affumicata dalle polveri piriche. Fate qualcosa! Per la bontà di Dio, fate qualcosa! Il Cardinale sorrise amaro e irritato. L’estrema unzione, dategli l’estrema unzione. L’assoluzione per i suoi peccati! urlava un’altra.
Il cardinale disse a bassa voce: ma io non sono un prete, non posso…
L’assoluzione, cardinale! L’assoluzione!

E voi che avete fatto? Domandò la duchessa.
Cosa dovevo fare? Gliel’ho data. Vi fermate un altro po’? Ho bisogno di stare ancora con voi.
No Giacomo, sinceramente non ne ho voglia.
Non avreste risposto così al vostro bien aimé
Chi ve lo dice? Eppure pensavo che mi conosceste. Vi ho sempre dato in rapporto a quello che avevo voglia di prendermi. E in più godete della mia fedeltà senza doverla neppure pagare.
Lorenza si avvicinò al volto del cardinale e gli lasciò un bacio su una guancia.
A proposito. Vostro marito.
Cosa?
Era con l’ambasciatore D’Harcourt e con me quando fu deciso che Sua Santità sarebbe andato via da Roma. Lui ne era al corrente. Non vi aveva messo a parte del nostro progetto?
Lorenza non voleva far trasparire alcuna emozione, ma tremava e arrossiva. Taceva, sorpresa e umiliata. Guardò fuori della finestra che si apriva sul vicolo Scanderberg con sguardo languido e perduto. Il cielo si andava come animando di una fretta insolita, per via dello scirocco che aveva iniziato a spingere con forza le nuvole grigie, e i gabbiani che ancora più veloci attraversavano lo specchio di cielo nella stessa direzione sembrava che fossero staffette incaricate di precederle verso una destinazione ignota.
Fu l’ultima volta che lo vide.

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Onde sconosciute attraversarono il petto

12 novembre 2010 4 commenti

Luca prende ogni giorno la metropolitana per un lungo tratto, dalla stazione di Valle Aurelia a quella di Piazza Re di Roma e viceversa. Porta con sé un libro da leggere, e lo legge. In questi giorni per esempio sta leggendo 2666 di Roberto Bolaño. E’ arrivato al terzo libro, La parte dei delitti.
Alla fermata Manzoni (chissà perché sempre questa) da qualche giorno sale un ragazzino Rom, con una vecchia fisarmonica, troppo grossa per il suo corpo gracile di bambino di sette o otto anni. Buongiorno e buona fortuna e parte con la solita lagna, suonata per di più malissimo, non solo senza nessun talento, ma senza alcuna intenzione o sforzo di mascherare l’assoluta incapacità. Sempre la solita musica: non Cielito lindo e neanche My Way, l’altra, quella che viene suonata più spesso, Luca non ne conosce il nome. Possibile che sappiano suonare, si fa per dire, solo queste tre? si domanda.
Guarda il ragazzino: è stanco e abulico. Suona e con una mano tiene il bicchiere di carta sgualcito di McDonald’s dove dovrebbe raccogliere gli spicci che i passeggeri impietositi gli dovrebbero dare. Ma il bicchiere è quasi vuoto. Non c’è nel suo sguardo un’afflizione tragica. Non c’è niente.
Luca vorrebbe leggere in santa pace. La musica lo disturba, lo distrae. Sospira indispettito, non vede l’ora che il ragazzino se ne vada il più lontano possibile, in un altro vagone. Ma quello indugia lì per un tempo infinito. Vittorio, Termini, Repubblica. E’ ancora lì. Luca ha una sua teoria. Mai dargli un centesimo. Né a lui né a quelli più bravi di lui. E’ l’unico modo per toglierseli di torno. Far capire loro che questa non è un'attività redditizia, neppure un po’.

La lagna non finisce mai. Luca chiude platealmente il libro, lo riapre, sospira. Ma non hai dei genitori? Non ti ci mandano a scuola? Lo so che a voi non vi ci mandano, ma dovrebbero farlo. E’ per questo che non ti do un centesimo, perché così i tuoi genitori lo capiscono che non è così che funziona, non tocca a te portare a casa i soldi impietosendo gli stanchi viaggiatori della Metropolitana.
Lo pensa, Luca, ma non lo dice, non apre bocca. A dire il vero cerca proprio di non guardarlo, per non accendere chissà quale speranza.
Sai cosa? ti do un euro se mi prometti che quando torni al campo dove vivete chiedi ai tuoi genitori di essere mandato a scuola. Guarda, ti do dieci euro se la smetti di suonare! E se per una settimana non ti fai più vedere! Pensa anche questo, Luca, ma continua a star zitto. Il bambino nel frattempo si è allontanato. Dalla fisarmonica arrivano le ultime note straziate di quella musica zigana, quel valzer etnico insopportabile, ispiratore di sensi di colpa e invidia per quella cultura così ricca e vivace, e piena di retorica sentimentale.

Questa mattina invece alla fermata Manzoni è salito un uomo giovane, trenta-trentacinque anni. Con la sua fisarmonica. Bravo. Cielito lindo, sì, ma con qualche variazione, qualche ardita dissonanza e senza l'aiuto dell'insopportabile base preregistrata tenuta ad un volume altissimo. Vicina a lui, quasi attaccata ad una gamba come un rampicante ostinato, la figlia di non più di cinque anni, la bocca già senza i dentini, i capelli lunghi e spettinati, sporchi.
Bravo o no, Luca comincia a smaniare come al solito. Sto leggendo 2666 vorrebbe dire, ma anche stavolta dalla bocca non gli esce una parola. Non lo capisce che in questo modo mi fa perdere la voce? No, non la mia voce. La voce del narratore. Lei non può capire. Solo leggendo 2666 potrebbe capire. Se lei suona una musica familiare, questa mi entra nelle orecchie e di lì striscia nel cervello, e lo inquina, come se si versasse una caffettiera sulla tovaglia pulita. Ti piacerebbe, eh? se si versasse il caffè. Sulla tovaglia pulita. La voce di Bolaño è musica, è ritmo scandito dai nomi delle strade e da quelli delle donne ammazzate nella misteriosa mattanza della città di Santa Teresa. Ma che parlo a fare?

La bambina intanto gli si è avvicinata mettendogli davanti il bicchiere. Lui non la degna neppure di uno sguardo. Per non dare neppure a lei alcuna falsa illusione. Lei non se ne cura e prosegue, con un bel sorriso sulle labbra.
Poco dopo anche il padre gli passa davanti. Ha finito Cielito lindo, e ha attaccato.. My Way? Quell’altra di cui non ricorda il nome? No. Una musica che Luca non conosce. Che differenza fa? Gli dà fastidio lo stesso.
Si piazzano nel vagone accanto. In questo modo la musica arriva solo lievemente attenuata. La bambina, felice, mostra al padre una moneta da due euro. Due euro! Stiamo freschi. Sarà stato un turista. Il padre le dice di rimetterla nel bicchiere. Lei ubbidisce, ma non per questo è meno eccitata.
Intanto di fronte a lui si è seduta una giovane donna, sui quaranta, forse qualcosa meno, che lo ha distratto dalla lettura e dalla musica. Cosa gli piace di lei? (perché gli è piaciuta immediatamente). Le labbra sottili. Possibile che le donne che si gonfiano le labbra come spugne ignorano quanto possano essere sensuali le labbra sottili appena ravvivate da un filo di rossetto? Indossa un curioso soprabito, un trench corto, molto sopra il ginocchio. Ha delle calze spesse e colorate che la proteggono dal primo freddo d’autunno. Ai piedi porta un paio di stivaletti bassi, neri, molto brutti, pensa Luca. Appena seduta, ha buttato indietro la testa appoggiandosi alla parete, e ha chiuso gli occhi. Un lieve sorriso affiora da un ricordo recente, o da un’aspettativa? E’ un bel regalo che fa a chi la guarda, pensa Luca. La fa ancora più bella, le addolcisce i lineamenti duri, regolari.
Luca ritorna al suo libro (“Fra avere paura di tutto e avere paura della mia paura scelgo la seconda, non dimentichi che sono un poliziotto e se avessi paura di tutto non potrei lavorare … La faccia del suonatore di fisarmonica era sconvolta. Onde sconosciute attraversarono il petto dell'agente della giudiziaria. Questo mondo è strano e affascinante, pensò … ”).

Luca si volta verso il suo uomo con la fisarmonica. Ha improvvisamente smesso di suonare. Davanti a lui, alti, imponenti, a gambe divaricate due carabinieri glielo hanno intimato. L’uomo li sta guardando dal basso mentre con movimenti cauti e rispettosi copre lo strumento con un panno. Tace. Uno dei due carabinieri ha un blocco in mano. Non gli sta (ancora?) chiedendo i documenti. Almeno, non sembra. E comunque l’uomo non sta mettendo le mani in tasca. Non sta facendo niente. Il Carabiniere annuisce, grave. L’uomo non arretra di un passo, ma dallo sguardo Luca capisce che non è proprio un bel momento.
Ci si fa l’abitudine, oppure ogni volta è la stessa paura? Intanto con lo sguardo cerca di individuare la figlia, con il suo bicchiere pieno di monete. Troppi passeggeri gli ostacolano la visuale. Si sarà nascosta? Se gli diranno di seguirli si separeranno? Hanno un piano preparato nel caso succeda quello che sta per succedere? Sa come comportarsi? deve nascondere le monete? Fingere di non conoscerlo? Se si divideranno dove e quando si potranno rincontrare? E’ in grado di tornare a casa, al campo, da sola?
Luca chiude il libro e lo ripone nello zainetto. Ma senza perdere mai di vista l'uomo della fisarmonica.

Attorno a lui, e ai due carabinieri (e forse alla bambina, che Luca continua a non vedere, ma essendo molto bassa potrebbe benissimo essere proprio lì dietro le gambe del padre) si è fatto il vuoto. E silenzio.
Alla fermata successiva (Spagna) i due carabinieri scendono. L’uomo no. L’uomo, con la sua fisarmonica, rimane sul vagone. E la figlia, ora finalmente la vede di nuovo, è proprio lì accanto a lui.
Il padre le chiede di accostarsi alla porta del vagone, che si è appena richiusa e di controllare dove sono andati i due carabinieri. La bambina schiaccia il naso sul vetro freddo e vi lascia un alone con il suo fiato. Rivolta al padre scuote la testa, fa cenno di no. Il padre toglie il panno alla fisarmonica, lo ripiega, infilandolo in una tasca del giaccone e riprende a suonare.
Ma non è più come prima. Non sorride e la musica ne risente. Ora è fredda, ora troppo veloce, c’è l’ansia di finirla, di scappare, e la musica sembra che lo preceda da qualche parte, non si sa dove.

Ancora altre vite possibili

3 settembre 2010 2 commenti

Certo è difficile per tutti. Per me è quasi impossibile.
La felicità.  Come potrò mai essere felice se, a prescindere da tutto quello che di bello può capitarmi – e mi è in effetti capitato – nella vita, non potrò mai andare ad abitare in un piccolo centro nel Midwest e, in questi giorni di fine estate minacciati dai tornado improvvisi, indossare una cerata gialla fornita dall’ufficio della Contea per il quale lavoro, salire a bordo del pickup con i lampeggianti e la sirena, e andare ad avvisare le famiglie che vivono nelle campagna del pericolo imminente, e insieme alla collega  (incredibilmente somigliante a Frances McDormand, continuamente in cerca di convincermi sugli indiscutibili vantaggi che ne avrei sposandola, rassicurandomi sul buon carattere dei suoi tre figli), monitorare l’evolversi della situazione e poi tornare e riferire allo sceriffo sul far della sera?
E come potrei essere felice, se anche riuscissi per un miracolo a trasferirmi nel Midwest, non potendo poi certamente realizzare l’altro sogno, quello di vivere in una piccola città in un cantone svizzero e fare il giornalista sportivo per l’unico giornale progressista elvetico, seguire il Basilea o il Grasshopper nelle vicine trasferte,  conoscere tutti i giocatori e andare a bere birra con i colleghi in un bar con dei tavoli in legno grezzo nel giardino davanti? E quand’anche mi  riuscisse di trascorrere una parte della vita nel Midwest e una parte in un Cantone svizzero, come potrei essere felice immaginandomi, senza speranza che ciò si realizzi, ad insegnare letteratura italiana in una università inglese medio grande, indossare giacche in tweed e sorseggiare thè seduto dietro la mia scrivania nel Campus, debolmente illuminata da una lampada che ingiallisce le pile di libri e tesi di laurea che la ingombrano?
Non so cosa ne pensiate, ma io onestamente trovo impensabile riuscire, nella stessa vita, ad essere un agente della Contea in un piccolo centro del Midwest, un giornalista sportivo svizzero e un professore universitario inglese, anche perché sarebbe del tutto inutile dal momento che rimarrebbe irrealizzato il sogno di potermi trasferire a Stoccolma per guidare i vaporetti turistici nella bella stagione, scambiare un saluto complice e brusco al collega nel passaggio delle chiuse nelle fredde acque del lago Malaren e poi mangiare aringhe e bere birra, nella precoce sera baltica.

(altre vite possibili qui e qui)

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Le vacanze di Jürgen

Come tutti gli anni in cui, dopo la separazione dalla moglie, spetta a lui tenere i figli per le vacanze estive, Jürgen è venuto in Sicilia. E’ la quarta volta.
Jürgen ha una concessionaria della Fiat ad Hannover e conosce bene l’Italia perché ci è spesso venuto per motivi di lavoro. E’ stato molte volte a Torino e Milano, ma anche a Genova e Roma. Il Sud lo conosce da turista.
Ha cinquant’anni, la faccia rotonda e i capelli diritti, anche appena uscito dal mare.
Ai suoi due figli, un maschio, Joachim, e una femmina, Angela, piace molto viaggiare con il padre ed hanno imparato come lui ad amare la Sicilia, dove tornano sempre volentieri, anche se non conoscono una sola parola di italiano e non hanno mai fatto amicizia con nessuno.
Joachim ha diciassette anni, Angela diciannove. Se volessero, potrebbero andarsene in vacanza dove vogliono, con i loro amici. Ma a loro la compagnia del padre piace (vivono con la madre).

Jürgen ha in mano il tubetto della crema solare. Se ne sparge un po’ sul petto glabro e sull’addome rotondo, teso e arrossato. Poi sulle braccia e infine sulle cosce.
Poi chiede al figlio di mettergliene un po’ sulla schiena.
Joachim lo accontenta prontamente spalmando la crema solare con precisione e accuratezza, passando e ripassando più volte per farla assorbire in modo uniforme e completo.
Quando a fargli la stessa richiesta è la sorella, che è già sdraiata, supina, sull’asciugamano steso sulla sabbia, i suoi gesti sono molto più sbrigativi, e tradiscono un lieve imbarazzo.
Vanno a fare un bagno.
Il padre e la figlia parlottano sottovoce mentre si avviano dove l’acqua è più alta. Joachim è andato ad affittare una canoa, e li sta raggiungendo pagaiando veloce, alla secca, dove i due si sono fermati, una ventina di metri lontano dal bagnasciuga. Passa vicino, li sfiora e li schizza con un remo. Poi li supera. Loro sfuggono all’assalto saltellando all’indietro nell’acqua fredda. Joachim gira la canoa su se stessa e torna a bagnarli di nuovo, poi gli gira intorno, come fosse a cavallo, o su una motocicletta. Ridono tutti e tre. Poi Angela monta sulla canoa, alle spalle del fratello, salutano il padre che rimane in piedi a guardarli soddisfatto mentre si allontanano. Poi si getta quasi a corpo morto nell’acqua, ma con una certa eleganza, con le mani giunte sopra la testa come se il suo fosse un vero tuffo. Il sole è perfettamente allo zenit. Tutto intorno a lui c’è uno sbrilluccichio radioso.

Jürgen e i suoi due figli dormono nella stessa grande stanza in un albergo quattro stelle, con piscina e zona fitness. L’architettura è sobria, rigorosa, la riproduzione edulcorata ma fredda, levigata, di un baglio contadino. Ogni cosa è al proprio posto (vasi di chicas, gelsomini, fontane, sedie a sdraio, l’acqua della piscina) come se in terra ci fossero dei segni da rispettare rigorosamente, come al cinema o alla televisione.
Questo ordine a Jürgen piace molto. Anche la gentilezza algida delle ragazze della reception. Il silenzio rispettoso degli altri clienti. Un clima piuttosto innaturale per la sguaiata Sicilia. Ma lui non ci fa caso, e trova questo molto “evoluto” (cioè molto tedesco).
In stanza, la sera prima di andare a cena, Angela chiama la madre, con il cellulare del padre. Le parla sommessamente, sorridendo al fratello al quale allunga l’apparecchio. Joachim parla invece a monosillabi. Arrossisce. Jürgen li osserva dal fondo della stanza, dove un divanetto rivolto verso la porta-finestra consente una vista del mare al tramonto. Non arriva a percepire quello che si stanno dicendo.
Lei non chiede mai ai figli di passarglielo e questo a lui dispiace. Per questo non si avvicina. Vorrebbe fare loro un cenno per dirle di salutarla da parte sua, ma poi non lo fa.
In quei momenti, davanti alla bellezza del porto al tramonto, con il sole che scivola in silenzio dietro i pescherecci e le barche a vela ancorate nella baia, si chiede se la moglie abbia già instaurato con il suo nuovo compagno quella complicità condensata in un sorriso muto, che gli lanciava da lontano, più un semplice aprire la bocca in un gesto involontario per difendersi come quando si è accecati dal sole negli occhi. Lo fissava così, per qualche secondo ed era tutto. Lui annuiva confermando la profonda reciproca conoscenza che non aveva bisogno di nessuna promessa.

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Evoluzione culturale

21 luglio 2010 4 commenti

“Rimetta in funzione quell’affare”.
La signora, quarantacinquenne, traslucida di sudore, con indosso una canottiera di lino color aragosta si rivolge all’Addetto alla Circolazione dei Passeggeri della Stazione Termini della metropolitana di Roma, Linea A.
Da qualche giorno importanti lavori di ristrutturazione stanno rivoluzionando i percorsi (anche mentali) della stazione e dei passeggeri che quotidianamente, o occasionalmente, sono costretti ad attraversarla. In pratica i lavori obbligano tutti i passeggeri in transito a confluire nello stesso percorso, in qualsiasi direzione essi debbano andare.
In più è stato progressivamente eliminato ogni strumento ad azione meccanica per trasferirsi da un livello ad un altro (le scale mobili, per intendersi). L’ultima scala mobile a fermarsi con un singulto è stata quella su cui stava per (o sulla quale avrebbe voluto) montare la signora sudata.

L’addetto alla Circolazione dei Passeggeri, la liquida sbrigativo: “Signora, non lo vede, è rotta.”
“Rimetta in funzione quell’affare”. La signora si asciuga il sudore da una guancia con la parte interna dell’avambraccio, in un gesto che può anche essere interpretato come una fugace analisi olfattiva dell’ascella*.
“E’ rotta, faccia la cortesia.”
“Io non mi muovo da qua fino a che non la rimettete in funzione.”
“Signora, ho paura che…”
“Ecco, fa bene.”
“A fare.”
“Ad avere paura.”
La signora indossa uno sguardo non può che essere interpretato come un nemmeno tanto velato avvertimento sul fatto a) che la sua innocente borsetta appesa alla spalla destra contiene una calibro 20 e b) che i suoi polpastrelli non vedono l’ora di usarla.
L’uomo la guarda, raccoglie le idee in cerca di una contromossa. In realtà gli sono sufficienti pochi secondi per liquidare la minaccia per quello che è. E non perché sia in grado di fare ricorso alla consapevolezza in virtù della quale possa almeno intuire di poter beneficiare di secoli di progresso culturale per cui ad un cittadino non è più consentito, come nel Far West, di girare impunemente armato. Non ha questa consapevolezza perché l’uomo, come tutti, non andava molto bene a scuola, e in particolare, come tutti, era debole nei “collegamenti”, quella cosa incomprensibile che era la fissazione di tutti i suoi insegnanti, che la utilizzavano per capire se l’alunno imparava tenendo tutto "appiccicato", o aveva veramente capito. Per cui adesso non è in grado di ricorrere ad un’analisi sovrastrutturale e diacronica, ma si deve accontentare dell’intuito. Del resto a salvarlo non è la consapevolezza di essere un ingranaggio di secoli di evoluzione culturale, ma l’evoluzione culturale in sé e per sé, a prescindere dal fatto che chi ne beneficia ne sia consapevole oppure no.
Peraltro, se l’Uomo, o anche la Donna, avessero voluto percorrere un altro importante pezzetto di evoluzione culturale avrebbero anche potuto afferrare il concetto che il disagio di oggi significa un maggior comfort domani, e che quindi forse vale la pena soffrire qualche settimana per poter disporre per un lungo periodo di scale mobili moderne e funzionanti, di un’illuminazione efficace e aria respirabile in ogni mese dell’anno.
Senza contare che l’attuale disagio si accompagna anche, per dirne un’altra, ad una drastica diminuizione (direi all’azzeramento) degli appostamenti da parte degli avidi controllori, dal momento che se oltre ai disagi questi dovessero mettersi lì a elevare contravvenzioni penso che, a prescindere dal grado di evoluzione culturale cui si ritenga di essere consapevolmente o meno approdati, i viaggiatori** finirebbero molto presto con l’azzannarne i polpacci.

* cosa che in effetti è
** me compreso