Letteratura come mitosuzione

SchwartzMatthew Sharpe ha scritto un libro, Gli Schwartz, che Einaudi Stile libero ha fatto tradurre a Matteo Colombo, e lo ha così pubblicato al prezzo, onesto, di 14 euro e 80 centesimi.

Ora, di cosa parli il libro è tutto scritto sulla quarta di copertina, quindi non vi voglio levare il piacere di leggervela.

Il romanzo, è noto, è stato rifiutato da 20 case editrici, prima di trovare un editore. Ci sarebbe da chiedersi perché, solo non considerando che venti case editrici non sono poi tante. Pure in Italia esistono 20 case editrici che possono rifiutare un romanzo: Einaudi, Mondadori, Rizzoli, Marsilio, Baldini Castoldi Dalai, Pequod, Minimum fax, Flaccovio, Sellerio, Rusconi, Longanesi, Guanda, Laterza, Sironi, Fazi. Mi sono fermato prima, ma come vedete già solo citando le più famose si arriva a 15. Insomma non è che si sia sprecato, considerando che noi siamo l’Italia, cioè uno stato, pure sfigato e dove si parla una lingua morta, e loro sono 51 stati e se ne avesse avuto il tempo avrebbe potuto provarci anche con quelle della Gran Bretagna e dell’intero Commonwealth.

Bene. Il libro com’è? E’ un buon libro. E’ acuto, qua e là, e qua e là fa molto ridere. Non direi commovente, ma insomma, ha una sensibilità tenuta a freno da un’ironia molto apprezzabile.

Ha però due o tre difetti che non gli si possono perdonare.
Gli Schwartz, malgrado l’autoironia (non credo  si possa definire altrimenti) con cui prende le distanze dal Giovane Holden (“può darsi che fosse un libro anche quasi decente, se venivi da un posto come la Bulgaria e non avevi mai sentito parlarne”: lo trovate nel risvolto di copertina, non c’è bisogno di andarlo a cercare), è l’ennesimo rampollo di quella dinastia: i libri che hanno come protagonista un adolescente mezzo scemo ma geniale e profondo come Peter Sellers di Oltre il giardino, e soprattutto spiritoso che manco fosse uscito dalla factory degli sceneggiatori di Friends.

Tutto il libro, non solo le parti relative al suo protagonista, Chris, il diciassettenne erede di Holden Caulfield, tutto il libro è intessuto di questo stile divertito e compiaciuto (con cose già orecchiate decine di volte, da Foster Wallace a Eggers tipo: “Chris Schwartz stava utilizzando il caratteristico stile in retromarcia di Chris Schwartz, combinato con il caratteristico stile di guida a singhiozzo di Chris Schwartz, ulteriormente combinato con il caratteristico stile di guida ellittico di Chris Schwartz”, o come: “Il dolce di crema e banane dei poveri era non solo la ricetta più deliziosa che Chris conoscesse, ma anche l’unica”, e cose così).

E poi quanto consapevole! Questo è davvero insopportabile. Di più: consolatorio.
Com’è possibile che adolescenti imbecilli come questi siano sempre così perfettamente autoconsapevoli della propria vita? Che siano in grado di analizzare ogni singolo minimo sussulto della loro percezione sensoriale, sapendo attribuirgli un valore preciso nell’economia del loro ancorché immaturo stare al mondo?
Che siano così bravi ad analizzare se stessi, le loro idiosincrasie, le loro aspirazioni, i propri slanci inquadrandoli in un contesto ampio e generalizzabile, constestualizzabile nelle mappe delle loro giovani vite? Degli adolescenti americani? (degli adolescenti e basta, direi)
E con quale rapidità, con quale prontezza, ed esattezza!
Cathy Schwartz adorava la sua bicicletta da donna viola a tre marce. Ne adorava il viola e il fato che fosse da donna. Adorava la libertà di movimento che le consentiva, la sensazione del vento sul viso, lo sforzo lieve dei muscoli delle gambe mentre  si sospingeva sulla superficie terrestre. Teneva in altissima considerazione il miracolo della ruota. Si abbandonava ai piaceri della bicicletta. Sapeva che presto avrebbe dovuto rinunciare a quei giri: la soddisfazione che le procuravano era troppo coinvolgente, e la distraeva dalla sua missione di vita…” (p. 207). Un ragazzina di sedici anni di Bellwether, Connecticut (o di Torbellamonaca, Roma, Italia) , non può avere questo tipo di sensibilità.
Chi me lo dice? E’ vero, io, vivendo a Roma (ma non a Torbella; non solo: non avendo mai messo piede negli Stati Uniti), non posso saperlo.
Ma, per dire, ho visto i film di Michael Moore, del quale mi fiderei di più, così, a pelle.

E poi, soprattutto, so che questo tipo di sensibilità esiste già. Io l’ho già letta. E’ una sensibilità riferita, non autentica, e questo lo so.
Consolatoria, dicevo: come definireste una costruzione posticcia di un mondo dove i ragazzi sono tutti intelligentissimi, un po’ casinisti, d’accordo, ma simpatici e un po’ schizzati quanto basta a farne dei piccoli geni? E i ragazzi che lo leggono? Si riconoscono! Senza essere loro, quelli ritratti. Si riconoscono nella riproduzione edulcorata del loro squallore, e a loro volta lo imitano, vivendo nell’illusione di essere come loro. E poi scrivono racconti a li mandano a McSweeney’s, che li riconosce come parte della stessa grande famiglia e li pubblica. Ma i risultati sono sempre un pelino inferiore al loro antecedente, con la conseguenza di avere uno scadimento progressivo e inarrestabile dall’originale (Il giovane Holden) ai giorni nostri.

Non voglio anticipare contenuti che possono togliere il piacere della lettura. Ma la famigliola formata da Connie, Gary e il loro figlioletto Charlie… Io non so se possano esistere davvero, negli Stati Uniti. Ammettiamolo. Ma, anche qui: di sicuro sono esistiti in altri romanzi, in altri film, ballate, a decine.

Si diceva come la letteratura americana sia mitopoietica. Io direi: lo è stata. Sembra che non lo sia più.
Il bello infatti è che la falsificazione della realtà ad uso di un anestetico e consolatorio ritocco della realtà, non costruisce (più) il mito dell’America, perché in realtà si limita a replicarne uno già bello fatto e finito (!).
La dimensione mitica della letteratura è mantenuta in vita, ma non alimentata: rimodellata, rimasticata, clonata. La letteratura della mitosuzione degli Sharpe, dei Franzen, si limita a succhiare dalla materia il mito prodotto dai loro predecessori. Magari con risultati anche gradevoli, e che si fanno leggere. Perché c’è comunque mestiere, c’è la capacità di costruire scene, di orchestrare la materia. Di essere precisi e gustosi, e di dire cose interessanti e disegnare momenti di ottima letteratura.

(per qualcuno con Sharpe l’America ha finalmente trovato il suo Proust. Affermazione contro la quale non si può controbattere assolutamente nulla)

Categorie:letture
  1. utente anonimo
    22 giugno 2005 alle 22:24

    Curiosità: questa cos’è? letteratura o genere? 😉

    G.B.

  2. bsq
    23 giugno 2005 alle 07:54

    E’ genere, caro GB, genere!

  3. 23 giugno 2005 alle 16:21

    E’ genere al 100%, sono d’accordo. Soltanto che i clichès sono più sottotraccia, meno individuabili. Ma molto più “fetenti”, a ben guardare.

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