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Lettera a un’amica a proposito di Melancholia, di Lars von Trier

Cara Monica,

ho finalmente visto Melancholia di Lars von Trier. Così ho anche, finalmente, potuto leggere la tua recensione , che avevo scorso volutamente in modo superficiale e veloce, per non rovinarmi la visione del film. Mi aveva molto colpito l’incipit. Il bisogno che avevi avuto di vederlo e rivederlo, il legame profondo che ti aveva legato a questo film, la fatica che ti era costata entrarci dentro. E allora quella cornice alla recensione vera e propria, solo in apparenza meramente introduttiva (che avevi tagliato nella versione “ufficiale” pubblicata su La poesia e lo spirito), era rimasta come una lucina accesa, come un suggerimento indiscreto, molto personale (perfettamente nel tuo stile, peraltro!): questo deve essere un film che va molto dentro alle cose. Non mi sbagliavo.

L’ho visto ieri sera, e mi sono ritrovato a pensarci parecchio, ieri sera e questa mattina. Arena di Piazza Vittorio, piena, calda, nuvoloni veloci grondavano calda umidità e impedivano di controllare se, lassù, una strana stella azzurra non ci stesse per caso minacciando.

Quello che hai scritto sul film è così profondo e meditato che c’è poco da aggiungere. Tuttavia non sono sicuro di essere d’accordo sul punto cruciale della recensione. E su un altro, collegato al primo, forse meno decisivo.

Parto da questo. Tu scrivi: “Justine si rende lentamente conto di aver fatto un errore a sposarsi. Comprende di non amare il suo sposo, e il suo gesto sembra essere stato dettato solo dal tentativo di assecondare una presunta normalità sentimentale e sociale”.

E’ senz’altro così. Ma la grandezza della prima ora del film (fra le cose più belle che abbia visto al cinema negli ultimi anni), il punto centrale della narrazione sta proprio nel non detto, in quello che è già dentro Justine, fatto emergere da von Trier in modo lieve e doloroso, e che precede l’inizio del film, lo giustifica, gli dà senso. La complessità di Justine, copywriter di successo, donna bellissima eppure irrimediabilmente infelice, viene raccontata con un’empatia tutta interna al personaggio. Viene piano piano alla luce, ma non viene svelata per epifanie conoscitive che le consentano di aprire gli occhi su come stanno davvero le cose: cioè che lei non ama Michael, l’uomo che ha appena sposato, e tutta la sua vita è destinata all’autodistruzione. La festa sfarzosa organizzata dal cognato John – un mediocre materialista per il quale l’unica cosa che sembra abbia importanza sia il numero delle buche del loro campo da golf – è solo l’occasione per farla finita, per chiudere la partita con l’ipocrisia e l’autoinganno: farla finita con il suo datore di lavoro, con Michael e con se stessa (la rabbiosa scopata con il ragazzo che ha il compito di estorcerle  lo slogan per la nuova campagna pubblicitaria è il punto culminante della messa in opera della presa d’atto del suo fallimento e della sua disperazione). Ma è nei dialoghi con la sorella che la sua depressione risulta già tragicamente condizionante: quando Claire si raccomanda di non rovinare la festa, e alle sue rimostranze che non sta facendo niente, quella replica: “hai capito di cosa sto parlando”.

E poi nella confessione di sentirsi legata con dei filamenti resistentissimi alla terra (l’avevamo già vista nel meraviglioso prologo, in uno slow motion parossistico che condensa in pochi struggenti fotogrammi tutto il film, con la musica di Tristano e Isotta) e Claire che cerca di consolarla, perché già sa (sembra che sia l’unica a conoscere il segreto della sorella: certo non il padre e la madre, forse neppure Michael).

E poi quando anche Michael prenderà finalmente atto che fra loro è finita ancora prima di cominciare (a nulla era valsa l’avvisaglia della freddezza con cui lei aveva accolto la notizia dell’acquisto da parte del marito del pezzo di terra dei loro sogni, e la brutta fine della relativa fotografia che lei aveva giurato di tenere sempre con sé – non con grande entusiasmo, in verità – che dopo pochi secondi giaceva a terra, spiegazzata e dimenticata) le dice: “Poteva essere tutto diverso”, al che lei risponde: “Che cosa ti aspettavi?” e lui annuisce, come a dire: certo, che cosa mi aspettavo (evidentemente doveva averne buoni motivi, solo che aveva voluto tenerli separati dalla speranza che davanti a loro ci fosse un radioso futuro). C’è in tutto questo la tragica supremazia della donna ferita (ma con una coscienza lucida, per quanto, nel caso di Justine, la lucidità non serva a granché) e del maschio imbelle o egocentrico (in modo innocuo, se può esistere un egocentrismo innocuo, o pernicioso e involontariamente comico come nel caso di John).

L’altra cosa, quella decisiva, è in qualche modo collegata a questa. Tu dici: “lui [von Trier] non parla “delle donne”, né di una in particolare, né di tutte, ma narra in realtà di se stesso, le sue protagoniste sono lui: “Justine c’est moi”.

Certamente, anche qui, non posso darti torto. Ma se Justine è Lars von Trier, lo è come Emma Bovary è Flaubert, restando allo stesso tempo Emma Bovary.

L’angoscia quasi insopportabile che trasmette il film mi è parsa in tutto e per tutto l’angoscia di una donna. Non mutuabile, nemmeno per traslati letterari, con la psicologia maschile. La forma depressiva autodistruttiva, colpevolizzante, autopunitiva che descrivi così bene nel tuo pezzo, mi sembra così femminile, così dolorosamente femminile da avere avvertito, in me maschio, quasi un fastidio, di primo acchito, per l’obbligo di dover identificarmi nel destino banale di tutti gli uomini del film (quello di Michael, mortificato la notte delle nozze, costretto a reagire solo di fronte la più volgare delle umiliazioni; o quello di John, il pavido marito di Claire, la cui paura di morire è in realtà una patetica paura di vivere – quando, al contrario, ciò di cui ha paura Claire non è di morire, ma è la morte – cosa ben diversa – mentre Justine non ha paura di nulla: la morte è la vendicatrice di ogni cattiveria umana, arriva come giusta punizione della sua incapacità di essere all’altezza, ma tocca proprio a lei, “zietta spezza-acciaio”, come la chiama il figlio della sorella, costruire la caverna della speranza).

Ecco il punto: la tua recensione mi è parsa curiosamente timorosa di accettare, come donna, il destino di Justine (o di Claire); di revocare, quasi, una specificità femminile che può risolversi in una sofferenza atroce, ma anche nella capacità di essere “quella che sa le cose”. Non si tratta di condividere o meno l’esperienza di Justine (la depressione, il senso di inadeguatezza alla vita); ma di riconoscerne la matrice nella natura profondamente femminile, che è un impasto di cedevolezza e reattività, cura e sprezzo di se stessa (il bagno caldo), razionalità e paura e istinto, forza, resistenza e …

Non vedo eroismo, né un senso di tragedia (che tu stigmatizzi). La tragedia maschile è fatta di rimozione e cedevolezza di fronte a un destino superiore, rimpianto, illusione, passione, idealizzazione della morte eroica. Qui non mi sembra ci sia nulla di tutto questo. Io ho trovato in Justine e in Claire, anche di fronte alla sconfitta, il principio della consapevolezza della donna di fronte a se stessa. Cosa che al maschio scarseggia. Non poco.

Ti saluto e ti abbraccio.

  1. 16 luglio 2012 alle 10:21

    Ho visto questo film in dvd (non avendolo potuto vedere al cinema, quando uscito). Depurata dalla mia ammirazione “a prescindere” su Von Trier, la pellicola trovo che sia una delle sue migliori. Trasmette il concetto di ineluttabilità come nemmeno il miglior Simenon saprebbe fare. E sopratutto, andrebbe rivisto. Mi sono continuato a fare del male visionando, sempre suo Anti Christ. Altro incubo e viaggio gratis nel lunapark dei rapporti di coppia…In ogni caso: Charlotte Gainsbourg è una di quelle bellezze che capisci dopo un quarto d’ora. Bel pezzo, Ezio.

  2. 16 luglio 2012 alle 21:05

    A seguito delle nostre varie riflessioni e dialoghi, credo che questo tema dovremmo affrontarlo insieme all’analista ;o) Scherzi a parte, quello che tu vuoi dire forse è che Justine non è così mascolina come io l’ho voluta vedere,anche se io ci vedo una donna “nordica”, e quindi sì, mascolina un po’ per default, ma quello che mi premeva dire è che credo che Von Trier rappresenti nei suoi film se stesso molto più attraverso i caratteri femminili che quelli maschili. La mascolinità sembra volerla rappresentare quasi con vergogna. La donna è sempre “vittima”, ma questo la eleva al di sopra del maschile che è sempre così più fragile, meschino, inetto. Ecco, in questo senso.. Grazie cmq, è stato molto emozionante leggerti, il mio ego è arrossito, di piacere.

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