Pontormo a Santa Felicita

[RdB]

pontormo1Quando si è a Firenze, si torna sempre a Santa Felicita per rivedere “La deposizione” di Pontormo.

Dove poggiano i piedi dei personaggi nel quadro? I piedi delle tre figure in primo piano, i due che sorreggono il corpo di Cristo e la donna di spalle, forse la Maddalena, sono sul terreno. Ma sono tutti alzati, come se fossero in procinto di preparare un salto.

Pasolini scrisse che il Cristo “è retto sotto le ascelle nella parte più bassa del quadro, da un angelo, mentre un altro, accucciato, gli regge, su una spalla le gambe – guardando verso l’obiettivo. … Questi due angeli riccioloni e un po’ rosci, hanno l’aria contadina ma sono cresciuti in città. Il fondo dell’espressione è perduto o piuttosto citrullo. … Uno, più giovane, quello che regge Cristo sotto le ascelle, un giovincello sui sedici anni, è tutto vestito di quel grigioverde dì cui si vestirono nei secoli quei soldati ora perduti negli ossari del mondo … L’altro, accucciato, un pochino stempiato – con sotto la chioma ricciolona mezza roscia, gli occhi infossati, le ciglia spioventi e le mascelle un po’ troppo tonde e grosse – dev’essere marchigiano, comunque ha spalle, dorso e pancia ignudi, e un manto lo cerchia fino a raccogliersi sulla coscia, giallo grano, sopra la mutanda di quel solito, stinto, crudele, disseccato verdino”.

Gli altri personaggi poggiano sul nulla, volano. La Madonna è circondata da quattro donne, vestite, come lei, di tutte le sfumature del celeste e del blu. Un’altra donna si sporge in avanti, sovrastando la Madonna. A destra, seminascosto, Nicodemo sembra guardare lo spettatore. La croce non c’è: più che una “Deposizione” è un compianto del Cristo morto. Il quadro è fatto, direbbe Shakeaspare, della stessa materia di cui sono fatti i sogni.

pontormoAccanto alla “Deposizione”, sulla parete contigua, c’è “L’annunciazione”. L’angelo e Maria si guardano. Le due figure sono poste di sguincio e sembrano ballare. Anche qui i piedi dell’angelo e della Madonna non sono piantati a terra ma sono alzati, come se i personaggi, appunto, danzassero. La Madonna sembra una ragazzina che dice all’angelo “a ragazzì, ma che me stai a dì, dici proprio a me?“.

Ci si innamorò subito di Pontormo sul testo di Giulio Carlo Argan e vedendo “La ricotta” con Orson Welles. Aveva già capito tutto Michelangelo, che, secondo Vasari, guardando un dipinto di Pontormo diciannovenne disse “Questo giovane sarà anco tale per quanto si vede, che se vive e seguita porrà quest’arte in cielo”.

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Ai Weiwei a Palazzo Strozzi

palazzostrozzi
[dalla “redazione cultura”]
A Palazzo Strozzi sta per terminare la prima grande mostra personale in Italia di Ai Weiwei. E’ una mostra più piccola, più politica e più fotografica di quella alla Royal Academy of Arts di Londra del 2015-2016.
E’ una esibizione più piccola, perché alcune grandi installazioni di Londra – si pensi al meraviglioso “Straight” dedicato alle vittime del terremoto del 2008 nel Sichuan – avrebbero incontrato problemi strutturali in un edificio rinascimentale qual è Palazzo Strozzi.
E’ una mostra più politica, perché Weiwei ha accentuato il contenuto di protesta delle sue opere: si pensi ai gommoni dei migranti che incorniciano le finestre del palazzo. Si guardi anche al dito medio moltiplicato di fronte alle fotografie di tutte le città del mondo, una trovata che una volta può anche divertire ma che è insopportabile quando viene ripetuta “ad nauseam”. Restando sul dito medio è, tra l’altro, incomparabilmente superiore il messaggio collocato da Cattelan di fronte alla Borsa di Milano, soprattutto per la sua ambiguità. Sono i cittadini che mandano a quel paese la finanza? O è la Borsa che umilia i cittadini? (dicendogli: noi i soldi comunque li facciamo, voi no).
E’ una mostra più fotografica, perché Weiwei ha scelto, diversamente dalla selezione londinese, di mostrare migliaia di foto e di selfie, dalla sua giovinezza a New York fino ai nostri giorni. E’ una scelta legata a Internet, alla possibilità di condividere le foto in rete, ma l’operazione mi è sembrata un po’ fiacca. L’eccezione, inquietante, sono le foto dedicate ai pedinamenti giornalieri ai quali l’artista è sottoposto, con i poliziotti che lo seguono dovunque. Si torna all’impegno politico di Weiwei, la cui storia è ben nota.
img_5030L’opera più bella occupa il cortile di Palazzo Strozzi. Si tratta di un’enorme ala spezzata, formata dai pannelli usati nel Tibet per riscaldarsi. Sopra i pannelli ci sono delle teiere: quando la polizia cinese invita una persona in commissariato a prendere un te, vuol dire che il cittadino deve iniziare a preoccuparsi. L’ala spezzata è il popolo cinese, ma anche il popolo tibetano, che non riesce a volare perché schiacciato dal regime. E’ un’opera tecnologicamente complessa ma insieme intima e commovente.
Weiwei potrebbe vivere ricoperto d’oro a Londra, New York o in qualsiasi altre capitale occidentale, piuttosto che continuare a rimanere a Pechino. La sua battaglia politica ricorda i tempi bui delle tante dittature europee – in Germania, Italia, Spagna, Grecia – che hanno attraversato il Novecento.
Categorie:arte, mostre

Jack Frusciante è uscito dal gruppo, di Enrico Brizzi

Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, 1994

[le letture del martedì di RdB]

brizziQuesto romanzo ebbe grande successo quando uscì, tanto da essere tradotto in più di 20 paesi. E’ una storia di crescita e inquietudine giovanile che rende omaggio al mito del Giovane Holden, continuamente citato (“il vecchio Alex”, “la vecchia Jane”, “come direbbe il Caulfield”, “dove vanno le anatre d’inverno?”). C’è poi il tributo a Bologna: via Zamboni, via Collegio di Spagna, i tramonti dietro San Luca, via Codivilla, via San Mamolo.

Siamo, direbbe Guccini, tra la via Emilia e il rock, celebrato da Anarchy in the UK dei Sex Pistols, dai Clash, dai Negu Gorriak, dagli Splatter Pink, dai Pink Floyd, dei Red Hot Chili Peppers, dai Pogues, da Jimy Hendrix. E poi ci sono i registi di riferimento: Allen, Scorsese, Coppola, Kubrick, Verhoeven, Malle, Kurosawa, Kaurismaki, Stone, Fellini, Ferreri, Moretti. Tutto è condito dallo stile, che riproduce il vernacolo giovanile di quegli anni, con un non-uso della punteggiatura, fino a diventare oggetto di tesi di laurea: lettere maiuscole ignorate, virgole e punti a capo inesistenti, lunghe parentesi.

Il protagonista Alex è un diciassettenne di sinistra che usa come intercalare “faccia di merda liberale” e “rotaryani stronzi luridi”. Odia la mafia e guarda ai centri sociali; non è tenero con il partito di Bologna e non sopporta né lo scudo crociato né il garofano. Alex è alle prese con le pene d’amore e le incomprensioni con l’altro sesso. Per fortuna c’è la storia con Adelaide, detta Aidi, nell’estate tra il terzo e il quarto liceo, prima che la ragazza voli negli USA per l’anno scolastico all’estero. La storia d’amore, per nulla carnale, quasi da dolce stil nuovo, è una delle cose migliori del romanzo. Per la prima volta, e sempre rimanendo in uno stato confusionale, Alex cerca di capire cosa sia la felicità, parlandone anche nel confessionale, in una delle scene più comiche del romanzo. Tutto è condito dall’ironia e dall’impossibilità di prendersi troppo sul serio. Siamo alla fine della prima Repubblica, dice Alex, e anche l’Italia non sa bene dove andare.

Si può rileggere la storia di Jack Frusciante come un piccolo trattato antropologico di un giovane bolognese in un momento di passaggio della società italiana. Quasi una vita quotidiana a Bologna all’inizio degli anni Novanta: è la strada che Brizzi imboccherà esplicitamente con i successivi “La vita quotidiana a Bologna ai tempi di Vasco” (2008) e “La vita quotidiana in Italia ai tempi di Silvio” (2010).

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Libri nel 2016

Classifiche. Come sfuggire? (semplice: basterebbe astenersi).

Ma la tradizione è tradizione. Per cui anche quest’anno pubblico la lista dei libri letti nel 2016 cui ho assegnato 4 o 5 stellette su Anobii.
Ma con una novità.
Quest’anno ho elaborato un sofisticato, quanto abbastanza inutile, algoritmo con cui calcolare l’indice di popolarità dei libri (sempre utilizzando le valutazioni degli utenti di Anobii – attenzione: di popolarità, non di merito).
L’algoritmo pesa il valore totale medio delle stellette ricevute da ciascun libro in base al numero di lettori (in rapporto al numero totale di lettori votanti i libri che prendo in considerazione), all’anno di pubblicazione (un numero alto di lettori di un libro recente vale di più dello stesso numero ottenuto in un numero maggiore di anni – per i classici considero l’edizione più vecchia censita da Anobii – che per fortuna come numero di possessori e di votanti considera il totale di tutte le edizioni disponibili) e alla distribuzione dei voti (valgono di più i libri che ricevono molte 5 stelle e pochi zero, per farla molto breve). Il limite di questo algoritmo è che i valori cambiano abbastanza di continuo, per cui andrebbe aggiornato almeno su cadenza settimanale (o quindicinale), la qual cosa sarebbe possibile solo se Anobii (quindi Mondadori) esponesse i suoi dati in modo aperto, strutturati in modo che chiunque possa riutilizzarli.

Dunque. Tanto per cominciare i  libri con 4-5 stellette quest’anno non sono stati molti: 10 (l’anno scorso 14)

5 stellette:
La vita davanti a sé, di Romain Gary

4 stellette:
Le particelle elementari, di Michel Houellebecq
I miserabili, di Victor-Hugo
Martin Eden, di Jack London
Roderick Duddle, di Michele Mari
Io sono vivo, voi siete morti, di Emmanuel Carrère
Zero K., di Don DeLillo
Una donna senza fortuna, di Richard Brautigan
Prendere il volo, di Adrien Bosc
La mia vita è un paese straniero, di Brian Turner

E questa è la classifica con l’indice di Anobii. Fra parentesi il primo valore è l’Indice, seguito dalla posizione assoluta nella classifica generale di tutti i libri (presenti sul mio scaffale, non di tutti i libri pubblicati), che al momento sono 157, quindi, per dire, La mia vita è un paese straniero al momento è al 152° posto su 157…. Al primo posto c’è Uomini che odiano le donne (indice di Anobii 25.720,56), al secondo La versione di Barney  (15.647,34), al terzo Kafka sulla spiaggia di Murakami (10.647,68). Ultimo… non lo dico perché è un’amica… il cui libro, oltertutto da novembre 2015 – quando l’ho inserito – ad oggi non ha aumentato i suoi lettori (e questo è un dato interessante).

Le particelle elementari (5039,917 / 11)
I Miserabili (4056,171 / 17)
La vita davanti a sé (3840,858 / 18)
Martin Eden (2993,358 / 20)
Roderick Duddle (784,196 / 68)
Io sono vivo, voi siete morti (691,222 / 71)
Zero K (283,003 / 104)
Una donna senza fortuna (146,511 / 126)
Prendere il volo (41,000 / 148)
La mia vita è un paese straniero (14,000 / 152)

Buon anno e buone letture a tutti!

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Zero K, di Don DeLillo

delilloDopo Underworld Don DeLillo ha concentrato la sua scrittura in brevi romanzi dalla lingua ricercata, densi fino a essere duri, come sonate da camera scritte nel linguaggio atonale che nulla concede al piacere della lettura, o dell’ascolto: stridenti, grumi di dolore, di inespressività, di aporie esistenziali. Body art, Cosmopolis, L’uomo che cade, Punto Omega. Sembrava che dopo il capolavoro enorme non potesse, o non volesse cimentarsi in un romanzo altrettanto totalizzante. Come se avesse perso la fiducia nella forma-romanzo. I tempi erano cambiati. C’era stato l’11 settembre, sembrava che il piccolo racconto lungo da camera fosse più adatto a porsi come forma per il proprio pessimismo.

Con Zero K DeLillo recupera un modo di raccontare più fluido. Torna a dare ai suoi personaggi un’ampiezza narrativa e alla storia la dimensione estesa di un racconto compiuto: di nuovo un vero romanzo. Un romanzo, comunque, doloroso e cupo.

Raggiunge questo obiettivo scegliendo il punto di vista del più lucido, razionale, scettico (non per questo meno problematico) dei suoi personaggi, Jeffrey Lockhart, figlio di un finanziere miliardario che, per amore della sua compagna ammalata e morente, sceglie di abbandonare tutto e di seguire la donna nel suo destino di morte, accelerando i tempi della propria dipartita. Sia lui che lei in realtà sono cavie di un progetto di rigenerazione attraverso un complesso meccanismo di crioconservazione. Congelati i loro corpi, e probabilmente le loro coscienze, in un futuro chissà quanto lontano, rinasceranno a nuova vita (Zero K  si riferisce infatti allo zero assoluto, espresso in gradi Kelvin).

Il progetto Convergence è situato in un luogo desertico, in un punto sconosciuto del Kazakistan, o pressappoco. Una struttura ipogea avveniristica, che ricorda i film di 007 o le stazioni abbandonate di Lost, attraversata da lunghi corridoi con porte che si aprono su stanze vuote (“devo aver bussato alla porta sbagliata” dice Jeffrey a un certo punto; “sono tutte la porta sbagliata” gli risponde un tale in giacca, cravatta e turbante). Ovunque, enormi schermi da cui vengono trasmesse in continuazione immagini di disordini, guerre, attentati, morti, devastazioni naturali: una CNN muta e infinita che sembra nutrire con lo spettacolo della follia contemporanea la lunga attesa del trapasso. Nella stazione si aggirano figuri inquietanti, membri di una setta folle, ma non pericolosa, che anela alla fine del mondo come la speranza di un Nuovo Inizio.
Jeffrey si trova lì chiamato dal padre, con il quale non è riuscito mai ad avere un rapporto né fecondo né facile: molti anni prima quello aveva infatti improvvisamente abbandonato la famiglia. Il ragazzo era quindi cresciuto con la madre, superando il trauma sviluppando sin da piccolo l’ossessione di dare un senso alla realtà. Da qui l’abitudine di trovare il nome giusto per ogni cosa o persona, e darne la definizione esatta. Ovvio che nel corso degli anni abbia sviluppato nei confronti di suo padre diffidenza per la sua ostentata ricchezza e per le sue scelte professionali o esistenziali.
Ora però, dopo  non averne mai condiviso la vita, si trova a doverne condividere la morte, la lunga morte cui quello va preparandosi con lucida e amara consapevolezza. L’uomo d’acciaio, il costruttore tutto d’un pezzo di imperi economici è oggi un uomo perduto e disperato per l’imminente scomparsa della donna che ama.

Il figlio non perde mai il distacco lucido e scettico verso questo assurdo progetto (la morte assistita, la congelazione); non si lascia tentare neppure per un istante dalle malie dei guru di questa ideologia iper-tecnologica mista ad aspirazioni new age: rimane estraneo, incuriosito al più, dalla rappresentazione della morte differita, di cadaveri-non-cadaveri che religiosamente, deprivati di ogni organo sensibile, aspettano. Cosa?
Jeffrey vive la sua vita separata dal destino dell’ingombrante genitore a cui piacerebbe pianificare il suo futuro; vive a New York (bellissimo il contrasto fra il deserto e la metropoli, chiassosa, piena di relitti umani tanto quanto quel mondo sperduto e quasi surreale), ha una storia con un’insegnante che ha un rapporto difficilissimo con il figlio adottivo, rifiuta le offerte di lavoro sponsorizzate dal padre scegliendo alla fine di lavorare part-time per un piccolo College del Connecticut come “Incaricato dell’ottemperanza e dell’etica“. In lui vive la speranza (sconfitta?) di un ritorno alla ragione, alla semplicità delle cose da dirsi, di viversi quotidianamente, alla scoperta fantastica del mondo visto con gli occhi di un bambino.

Nel romanzo vive fra le righe la follia dell’uomo che gioca con il tempo per rinunciare a se stesso in cerca di un nuovo Io; risuonano le domande fondamentali a cui non si sa più dare risposta; aleggia la paura di perdersi se non si riesce più a nominare il mondo, rimasto senza parole utili a descriverlo (“Mi pare di essere qualcuno”… “Sono una persona che dovrebbe essere me”…) e dunque senza riferimenti che certifichino la sua esistenza, come la donna congelata, il cui flusso di coscienza viene registrato come un segnale debolissimo dallo spazio ma in, fondo, pieno di speranza: “Ma io sono chi ero”… “Così, in continuazione. Occhi chiusi. Corpo di donna in un guscio”.

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Per un ritratto dello scrittore da giovane, di Leonardo Sciascia

Leonardo Sciascia, Per un ritratto dello scrittore da giovane, 1985

[le letture del martedì di RdB]

Leonardo Sciascia. © Giuseppe Leone

Sciascia ha molto amato Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952), lo scrittore e critico letterario che nel 1931 lasciò l’Italia per gli Stati Uniti. ‎Partendo dal ritrovamento di alcune lettere giovanili di Borgese, nel 1985 Sciascia ha pubblicato questo breve racconto.

Scopriamo il genio precoce di Borgese, affermatosi già in giovane età. Sciascia ne ricostruisce la formazione, che avrebbe portato al capolavoro “Rubè”: Stendhal, Tolstoj, Omero, Tasso, Gogol, gli altri grandi russi. Attraverso Borgese, Sciascia si diverte a presentare le sue idiosincrasie nei confronti di D’annunzio e Croce, esaltando i suoi autori preferiti, Leopardi e Brancati. Lo stesso Borgese ebbe forti incomprensioni con Croce, che pure lo aveva lodato all’inizio della sua carriera.

g-_a-_borgeseC’è il rimpianto per una Palermo che non esiste più, quella a cavallo del Novecento. C’è soprattutto una descrizione affettuosa delle famiglie borghesi del tempo, quando i giovani lasciavano le campagne per andare all’università, ospiti dei parenti che vivevano nel capoluogo. Ecco quindi i riti palermitani, in particolare nella cucina: i galletti “abbracciati’, vale a dire cotti alla brace; i carciofi domestici; le uova fritte “ad occhio” o amalgamate col formaggio in frittata o sode; il burro, considerato “di sapore ineffabile e per sopraffini palati”; le cassate; i manderini; i pirittoni, che sono “grandi cedri come se ne vedono nel chiostro di San Giovanni degli Eremiti”; le sfogliate o sfogli, “torte con un impasto di cioccolato e formaggio pecorino fresco“.

Insomma, un piccolissimo affresco della questione che Sciascia nella sua vita ha avuto più a cuore: la Sicilia e il carattere dei siciliani. Nel descrivere Borgese a Berlino, concorda con Brancati che il siciliano “anche nei momenti in cui può esser felice trova motivo di infelicità nella paura che quella felicità debba finire“. È la stessa concezione della cultura greca, dove gli eroi più invincibili sanno che gli dei, invidiosi del successo degli uomini, prima o poi li puniranno.

Sciascia condivideva la visione del mondo di Borgese, profondamente siciliana, come espressa in lettera del 1912: “Sono di quelle esperienze che … c’invecchiano utilmente; … si matura quella concezione serenamente pessimistica della vita, senza la quale non si è che avventurieri”. Sembra già di sentire il Principe Tomasi di Lampedusa, una cinquantina d’anni prima.

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Gli anni al contrario, di Nadia Terranova

Nadia Terranova, Gli anni al contrario, 2015

[le letture del martedì di RdB]

nadia-terranovaNegli anni giovanili ho nutrito una forte antipatia verso il movimento del ’77. Mai movimento mi sembrò più inutile, superficiale, violento, destinato a fallire senza lasciare nulla alle generazioni future, anzi producendo strascichi orrendi. Ci possono essere e ci sono errori in tutti i movimenti politici – dalla socialdemocrazia al liberalismo, dal cattolicesimo sociale ai partiti verdi, in sintesi nelle varie configurazioni che la sinistra e la destra assumono in tutti i paesi nel mondo – ma è arduo trovare un movimento così futile e pericoloso come quello del 1977. Soprattutto pericoloso, perché quando il movimento evaporò, tanti giovani finirono nella trappola del terrorismo e della tossicodipendenza.

Abbandoniamo la discussione ideologica, anche perché trita e ritrita. Nadia Terranova ha scritto un bel libro su una famiglia italiana di quegli anni. E’ un romanzo che parla di formazioni giovanili, tensioni familiari, di un innamoramento e di un amore che nascono, vanno in crisi e sopravvivono in forme diverse. Sullo sfondo c’è la palude della provincia, una delle molle, oltre all’infatuazione politica e alle debolezze personali, che spinse tanti giovani verso gli estremismi di quegli anni. E’ una specie di antropologia di un pezzo della sinistra italiana dal 1977 alla fine degli anni Ottanta, scritta con un tono lieve ma in grado di scavare in profondità le storie di due giovani, Aurora e Giovanni. “Quando penso agli anni trascorsi mi sembra che siamo andati tutti al contrario. Abbiamo avuto una casa, una figlia, una laurea senza saperne che farcene, e ora che lo sappiamo ci stiamo già dividendo le briciole. … e non ripeteremo gli stessi sbagli perché avremmo imparato dall’esperienza, che poi è la somma di tutte le cazzate fatte”. Nadia Terranova ha trovato l’equilibrio tra una prosa leggera, un contesto storico drammatico, i personaggi tipizzati ma realistici – il padre fascistissimo di Aurora e quello comunista di Giovanni – e un ritmo che afferra il lettore, in particolare nella descrizione delle pene di un amore perduto.

Quando il libro finisce, ci si porta dietro il ricordo e l’affetto per i due protagonisti. È un pregio raro, un risultato che pochi romanzi riescono a conseguire.

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The young Pope (o the Young Pop?)

6 dicembre 2016 1 commento

[la serie va vista in lingua originale. Tassativamente]

Non è una domanda o un artificio retorico per aprire il pezzo. Molti davvero domandano, a chi l’abbia visto: ma allora com’era questo Young Pope?

law-pope

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Purity, la ricerca della normalità di Jonathan Franzen (ma ne parlo pochissimo)

 

Jonathan Franzen, Purity, 2016

franzen_jChe tipo di scrittore è Jonathan Franzen? Che tipo di libri scrive?

Perché mi faccio queste domande? Perché nel sentire letterario comune mi pare che Franzen occupi uno scranno  – un po’ laterale forse – della fascia alta, ma che nel suo caso reputazione, vendite, fama non ne sono le conseguenze, ma la causa. A me pare che sia un caso di scuola in cui la reputazione (la buona reputazione) per motivi abbastanza oscuri preceda la (eventuale) qualità e la condizioni. Attorno a Franzen si forma così una sorta di aura, che ha come conseguenza quella di considerare ogni suo nuovo libro un oggetto degno di analisi critiche di un certo spessore, e di seminare aspettative.

Lo dico subito. A me Franzen pare uno scrittore leggermente sopravvalutato. Dirò di più. A me pare che Franzen lotti contro un complesso di inferiorità di cui è probabilmente solo in parte consapevole, che lo porta a custodire e promuovere la propria sopravvalutazione, mettendolo nello stesso tempo di fronte ai propri limiti; aporia da cui si sente obbligato a prendere le distanze, come è comprensibile, con meccanismi di rimozione e autoaccettazione indispensabili alla propria sopravvivenza. In qualche modo, cioè, la sopravvalutazione è un elemento costitutivo dei suoi libri, la loro ragion d’essere.

Si sa che Franzen è stato uno dei migliori amici (uno dei pochi nel côté letterario) di David Foster Wallace, e questo mi ha sempre molto colpito. Avevano qualcosa in comune: entrambi dell’Illinois, entrambi due ragazzoni robusti, alti, colti. Uno però era evidentemente un genio, l’altro un bravo ragazzo dotato, equilibrato (laddove l’altro era squinternato, paranoico, maniaco-ossessivo, depresso, e infine suicida); Franzen è il piccolo borghese, l’uomo tranquillo che David forse avrebbe voluto essere (la versione edulcorata di se stesso, il vero figlio dei suoi genitori, intellettuali del midwest, posati, sicuri di sé); David è d’altro canto per Jonathan – probabilmente – l’artista maudit che lui non può e non potrà, e non vorrà mai essere.

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L’amore molesto, di Elena Ferrante

2 novembre 2016 1 commento

Elena Ferrante, L’amore molesto, 1992

[le letture del martedì di RdB], [eccezionalmente di mercoledì]

aibraqg8tDopo oltre venti anni, ho riletto il primo romanzo di Elena Ferrante.

La madre di Delia, Amalia, annega. La figlia va alla ricerca del perché. È una storia sull’amore tra vecchi, sul rapporto tra madre e figlia, su una sensualità violenta e morbosa che ha dominato le vite di Amanda e Delia. Tutto avviene in una Napoli dura, torbida, angosciosa, come forse non si vedeva dalla Pelle di Malaparte: nessuno spazio per “o sole mio”, mare, pizza, mandolino, Vesuvio, maccheroni, spaghetti con le vongole, tarantelle e sfogliatelle. Abbondano invece le descrizioni dei palazzi, dei cortili, dei pianerottoli, della funicolare, delle piazze, delle vie strette, dei bassifondi più sporchi della città.

Il romanzo spiega i rapporti violenti tra donne e uomini, la voglia di libertà delle prime e la repressione operata dai secondi, le tensioni tragiche all’interno di una famiglia, le immedesimazioni pericolose tra Amalia e Delia, con la figlia che arriva al transfert. E’ una piccola Gomorra sulla durezza dell’amore a Napoli, su una sensualità spesso scurrile e aggressiva, su una gelosia assoluta, che rende impossibile godere degli affetti.

Come Saviano ha dissezionato, nel suo romanzo-inchiesta, la criminalità organizzata campana, Ferrante ha dissezionato, in un romanzo psicologico, il sesso molesto “per il suo realismo aggressivo, gaudente e vischioso”, come scrive l’autore/trice.

Venti anni fa il libro mi era sembrato un confuso incubo napoletano; oggi mi è apparso una descrizione quasi antropologica di cosa possano essere l’amore e il sesso nel nostro Mezzogiorno. Una specie di “Comizi d’amore”, in una società che ha perduto, come pronosticato da Pasolini, l’innocenza.

[perché il punto interrogativo è vestito da uomo? Il redattore di BSQ lo spiega qui]