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The Artist

Cominciamo citando un classico della teoria cinematografica: “Quando, una ventina d’anni fa, si fecero i primi tentativi di film sonoro, scrissi in Der Geist der Films che il suono non costituiva una conquista, ma un semplice problema: conquista sarebbe divenuto – e conquista eccezionale – il giorno in cui fosse stato risolto.”

Béla Balász, uno dei maggiori teorici dell’arte cinematografica della prima parte del Novecento, autore di uno dei testi più importanti per capire l’evoluzione dell’estetica cinematografica dagli inizi agli anni quaranta, Il Film: evoluzione ed essenza di un’arte nuova (ancora in commercio),  non era un conservatore condizionato da un’estetica ideologica che gli impediva di apprezzare le novità tecnologiche. Ma era persuaso che la perfezione del linguaggio cinematografico del cinema muto, che esaltava lo ”specifico filmico” senza appoggiarsi in modo surrettizio sulle caratteristiche delle altri arti, non era stata neppure sfiorata dal cinema sonoro. Queste peculiarità il cinema sonoro le perse, non riuscendo a trovare una sua specificità di linguaggio, divenendo per lo più, secondo Balász, mero “teatro fotografato”.

Balász morì nel 1949, senza probabilmente conoscere i film di Orson Welles (per citare forse il più grande innovatore del cinema degli anni quaranta e cinquanta), che pure erano già usciti (Citizen Kane è del 1941). Il cinema sonoro ha poi certamente trovato la sua strada (basti pensare a Godard), ma nel complesso non è che abbia dato davvero prove convincenti e durature di aver superato il problema.

Le due direttrici fondative del cinema dagli anni settanta ad oggi sono la spettacolarizzazione e il dialogo. Ma raramente una “narrativa per immagini”. Tanto che per tornare a vedere un racconto per immagini, bisogna riappiccicare i fogli del calendario e fingere di attestarci al 1929, l’anno in cui ha inizio la vicenda di The artist, il bel film di Michel Hazanavicius.

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