Archivio

Archive for dicembre 2011

MAXXI

Ci sono luoghi estremamente fotogenici. Uno va lì e si trova incluso nelle geometrie predefinite da un architetto, o nella composizione pittorica della natura, o nell’espressione significativa di un volto.

Allora che c’è di più facile che prendere il telefono, o la macchina fotografica e riprodurlo. Pesonalmente non so perché lo faccio.
Mi pare di trovarmi nella condizione descritta da Jonathan Franzen, in Zona Disagio:

“A volte, durante le nostre escursioni all’Ovest, io e mia moglie avevamo raggiunto cime non devastate da altri escursionisti, ma anche allora, in quelle gite perfette, mi chiedevo: “e adesso?” E scattavo una foto. Come un uomo con una fidanzata fotogenica di cui non era innamorato.” (pag. 197)

Qui sotto le fotografie scattate il primo gennaio e il 30 dicembre di quest’anno, al MAXXI.

Maxxi, gennaio e dicembre 2011
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Citazioni

Citazioni come se piovesse, sul blog cugino.

Dagli amati Richard Ford e Abraham Yehoshua, sullo scrivere, sull’amore, sulla vita

“Secondo me la domanda principale è “come” qualcosa succederà, e non “che cosa” succederà. Riuscire a trattenere l’attenzione di chi legge sul come e non sul cosa è un problema che deve affrontare qualunque scrittore. E’ nei libri gialli che per lo più ci si chiede soprattutto che cosa succederà, ma dopo che si è finito il libro non ci si pensa più, mentre in altri tipi di romanzo si sa già che cosa avverrà e la domanda essenziale verte sul come. E’ lo stesso nella vita reale; nessuno si preoccupa di che cosa faremo a mezzogiorno, perché sappiamo già che andremo a pranzo. Quello che vogliamo sapere del nostro futuro è come sarà. L’equilibrio fra il che cosa e il come è l’arte dello scrittore.”

Abraham B. Yehoshua, Il lettore allo specchio, p. 41-42
[lo trovate qui, nella categoria “Scrivere“]

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Il grande Gatsby, di F.S. Fitzgerald

Francis Scott Fitzgerald, Il Grande Gatsby (1925)

[le letture del martedì di RdB]

Ho parlato con un’amica del “Il Grande Gatsby”. Ecco il nostro dialogo (iniziando da quello che mi detto lei)

Che str… è Daisy ! Ma come, torna da te  Gatsby e tu non ci scappi via ! Vi siete amati e tu lo ami ancora. Hai un marito che ti tradisce, quel porco di Tom, e tu non ce la fai a lasciarlo e a scappare via con Gatsby! Gatsby era dovuto partire per la guerra; ti sei sposata; lui è sopravvissuto alla guerra ed è tornato da te, dopo cinque anni. Ha comprato quella villa meravigliosa; organizza quelle feste fantastiche (che me ne importa che non si capisca l’origine dei soldi); è di un generosità senza limiti; e poi quei vestiti, quei bianchi, quei lini, quei cotoni leggeri, quei cappelli; che classe, che stile; e il coupé giallo; e tu Daisy che combini quella catastrofe; donne così le odio, ci sputtanano tutte.

Ma, mi pare che esageri, e poi ti concentri solo sulla storia d’amore. E invece nel romanzo ci sono cento altre cose. C’è la guerra di classe; Gatsby viene dal popolo, dal volgo; ha dovuto fare cose tremende per accumulare la sua ricchezza; il suo è lo scontro con l’aristocrazia, con Tom Buchanan e Daisy. Sono persone che distruggono tutto ciò che toccano “Erano gente sbadata, Tom e Daisy: sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro e nella loro ampia sbadataggine o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto”. E poi c’è la fotografia dei “roaring twenties”, del boom economico americano che sarebbe stato cancellato dalla Grande Depressione. E poi c’è il senso del crepuscolo che fa grande il romanzo. È la fine del sogno americano, è la luce verde che prima illumina e poi si spegne. Gatsby pensava di avercela fatta, di aver coronato le sue illusioni. La luce verde è il faro alla fine del molo vicino alla casa di Daisy “Gabtsy credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi”. E invece … E poi c’è la lingua di Fitzgerald, quel misto di realismo e lirismo, di verità e scrittura fantastica.

Basta con queste stupidaggini da intellettuale. Quando una donna incontra un amore come quello di Gatsby, non c’è contesto che conti. A Fitzgerald interessa raccontare solo la storia d’amore, quegli sguardi, quei baci tra Gatsby e Daisy. Come vorrei anche io che apparisse un Gatsby che venga a prendermi per portarmi via. Va bene, magari oggi in recessione ci siamo già, ma che importa?  

Accabadora, di M. Murgia

Michela Murgia, Accabadora, 2009

 [Le letture del martedì di RdB]

Questo romanzo si misura con la morte e lo fa in maniera insolita per la letteratura italiana contemporanea, rimandando a riferimenti alti. Il primo è “La morte di Ivan Illic” di Tolstoj, dominato dal desiderio dei familiari che una lunga malattia di un congiunto finisca presto. Il secondo è “Casa d’altri” di D’Arzo, dove, in un ambiente dominato dal cattolicesimo, si commette qualcosa che questa religione non può giustificare.

In “Accabadora”, Maria, quarta figlia di madre vedova, diventa fillus de anima di Bonaria Urrai, donna ormai matura che ha perso il fidanzato nella Grande guerra. Bonaria nasconde un segreto, che sarà il filo conduttore della storia. La Murgia ricostruisce la Sardegna contadina degli anni cinquanta, la sua crudeltà, l’omertà, l’assenza di giustizia, perché le uniche regole sono quelle che la comunità si è data da secoli. Tra gli individui scattano meccanismi antichi, inellutabili, come in “Tre croci” di Tozzi, perché il mondo contadino è così e non può cambiare. La Murgia guarda ai volti degli individui, alle cose non dette, agli sguardi che dicono tutto, mischiando introspezione e ricostruzione minuziosa delle cose della tradizione sarda: come si lavora la terra, come si cucina, come si arreda una casa, come si educano i bambini, come ci si sposa, come ci si sfida tra famiglie. Soprattutto, come si  muore: qui sta l’originalità e la grandezza del testo. Uno dei migliori romanzi usciti in Italia negli ultimi anni.

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Ricordo di Leda Colombini (1929-2011)

La ragazza lo vide arrivare in fondo al viottolo nella campagna, poco fuori Fabbrico. Andava in bicicletta. Sul tubolare portava la donna che stava per sposare, una donna ricca. L’uomo era suo padre, e il padre delle sue due sorelle più piccole: era il figlio del padrone del podere dove, come salariato, comebifolco (addetto al bestiame) lavorava il padre di sua madre Iride, e per questo non era e non sarebbe mai potuto diventare suo marito; per di più Iride aveva già un’altra figlia da una relazione, precocissima, con un altro uomo. Ma Iride gli voleva bene, lo amava. Per questo la ragazza si piantò in mezzo al sentiero e non lo fece passare. “Chi sei? Cosa vuoi?” le disse l’uomo. Il fatto che si sarebbe sposato con un’altra e che la madre, quando l’aveva saputo, aveva pianto, l’aveva riempita di rabbia. Per questo quando l’aveva visto arrivare, di lontano, sulla bicicletta, con quella donna incastonata fra le braccia protese, lo aveva fermato. “Chi sono? Cosa voglio?” L’uomo la guardò all’improvviso come intimidito, e lei cominciò a riempirlo di pugni. Un granarola di pugni. Lui abbassò la testa  e le spalle sul manubrio e si prese i pugni, dal primo all’ultimo, senza dire una parola. Poi si sistemò sui pedali, aiutò la signora non ancora sua moglie e risalire sulla bici e si allontanò senza voltarsi.

La ragazza si chiamava Leda. Leda Colombini, e racconta questo episodio nel bellissimo libro di Francesco Piva, Storia di Leda. Da bracciante a dirigente di partito, edizione Franco  Angeli, 2009.

Leda era nata nel 1929, figlia di una contadina di Fabbrico, nella bassa reggiana, terra di socialisti e di braccianti, di povertà, fame e voglia di riscatto.

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Don Italo Coccia

14 dicembre 2011 1 commento

Se non ci fosse un ragazzo morto dietro questo delirio anacronistico ci sarebbe da ridere, poiché l’indignazione pare eccessiva.

Parlo di Pontifex, il sito ultra-cattolico (come si dice: io direi assai poco cattolico) che ha risvegliato il piacere retorico dell’anatema e della punizione divina per spiegare (come se si potesse) le tragedie che si abbattono su questa terra. Ultima, la morte del ragazzo intento a montare il palco per il concerto di Jovanotti.

Se non ci fosse una tragedia vera si sarebbe tentati di credere che dietro Bruno Volpe, l’estensore del blog, vi sia in realtà Don Italo Coccia, parroco della parrocchia di San Bernardino a Gomorra a Mare.
Date un’occhiata a questo passaggio (da qui)

Sappiamo bene che queste parole susciteranno le ire e gli insulti di uomini di poca fede o di siti di spam, ma di loro: “chissenefrega”.

Una notizia di servizio.

Oggi 13 dicembre, al Teatro Capranichetta, Roma, ore 10:30 l’onorevole Domenico Scilipoti spiegherà i motivi secondo i quali la prossima manovra Monti sarebbe violativa della Costituzione.

Preghiamo insieme per l’anima del giovane deceduto.

L’eterno riposo dona a lui, o Signore. Risplenda ad esso la luce perpetua. Riposi in pace. Amen 

UN MINIMO DI DOTTRINA CATTOLICA VERA

Il Signore voleva questo: un numero anche minimo di giusti per salvare la città. “Ma – afferma il Papa – neppure dieci giusti si trovavano in Sodoma e Gomorra, e le città vennero distrutte.

 

Miserie e splendori delle cortigiane, di H. de Balzac

13 dicembre 2011 1 commento

Honoré de Balzac, Miserie e splendori delle cortigiane 1839-1847

[Le letture del martedì di RdB]

Questo romanzo è il seguito delle “Illusioni perdute” e si compone di quattro parti:Come amano le cortigiane (1839), Quanto costa l’amore ai vecchi (1843), Dove conducono le cattive strade (1846), L’ultima incarnazione di Vautrin (1847). Il protagonista è Carlos Herrera, alias Jacques Collin, alias Tromp-le-mort, alias Vautrin. A Parigi Carlos Herrera si finge un prete spagnolo e ordisce le sue trame per far fare carriera al suo protetto, Lucien de Rubemprè, il personaggio principale delleIllusioni perdute. Lucien è amato dalle donne più importanti di Parigi ma lui è innamorato di Esther, bellissima cortigiana; ecco la storia di “Come amano le cortigiane”. Il terribile Herrera costringe Esther a sparire, a ritirarsi in campagna, perché niente deve turbare la scalata sociale di Lucien, promesso in sposo a una ricca giovane dell’alta borghesia. Poi Esther viene richiamata a Parigi, ma solo per spillare più soldi possibili al ricchissimo banchiere ebreo Nucingen. Qui Balzac si scatena con il suo antisemitismo; le pagine del vecchio banchiere preso in giro da Esther sono tra le più belle del romanzo: siamo in  Quanto costa l’amore ai vecchi. Nucingen è un alsaziano, parla con un terribile accento tedesco: è una caricatura di Rotschild. Leggi tutto…

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Pedro Paramo, di J.Rulfo

Juan Rulfo, Pedro Paramo, 1955

[Le letture del martedì. Di RdB]
 

Una madre muore e prega il figlio di andare a cercare il padre-marito, Pedro Paramo, nella città di Comala. Il figlio si troverà in una città di morti, dove i morti parlano tra loro e i vivi, forse, sono già morti. Una scrittura lirica, fantastica, che avvicina Rulfo al Faulkner di “L’urlo e il furore”, per il continuo cambiamento del punto di vista del narratore, del personaggio che racconta la storia. Una lingua semplice, con pochi vocaboli, per disegnare il ritratto di un paese messicano con il vecchio padrone, vero re del villaggio, un prete corrotto, tante povere donne, sia vecchie sia giovani e, soprattutto, la morte che incombe su tutti, sullo sfondo della rivoluzione di Pancho Villa (che a Rulfo non interessa per nulla). Un mondo dove nulla cambia o potrà cambiare. Un libro strano, straordinario nel tentare di esprimere il contatto tra chi vive e chi non c’è più, attraverso rumori, ombre, spiriti, presagi, sogni, incubi, bisbiglii, racconti. Bello, ma forse oggi un po’ datato.

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Lacrime

Un paio di settimane fa, durante la prolusione in occasione dell’apertura dell’anno accademico dell’Università La Sapienza, al rettore Luigi Frati, nel pronunciare la seguente frase: “.. dobbiamo tenere presenti sempre quei principi di solidarietà che ci fanno riflettere, sempre, sui sacrifici di tante famiglie che credono nell’università come ascensore culturale e sociale, anche di fronte alle crescenti difficoltà economiche di questi tempi. Non vogliamo  perdere questi ragazzi per problemi di bisogno….” si è  rotta la voce (inaspettatamente, mi sentirei di dire dato che Frati siamo abituati a vederlo più spesso negli atteggiamenti documentati nella foto qui accanto), soffocata da un rigurgito di pianto, e con gli occhi umidi ha portato a termine il discorso fra gli applausi di convinta (mi sentirei di dire) solidarietà.

Ieri, come tutti sanno e molti hanno visto, il ministro Elsa Fornero non ce l’ha fatta a pronunciarla quella parola, sacrifici, è si è impantanata anche lei fra i singhiozzi.

Frati e Fornero hanno un paio di cose in comune (non di più, mi sentirei ancora di dire): gestiscono un significativo potere, e sono docenti universitari. In quanto docenti universitari sono persone abituate a confrontarsi, da una posizione di sicuro privilegio, formale e sostanziale, con i ragazzi che con le unghie e con i denti, con passione e incoscienza cercano di costruirsi un futuro. Per molti di loro si tratta di un futuro che vorrebbe riscattare una posizione sociale dei loro genitori che non sono stati altrettanto fortunati. Ma come sappiamo si sbagliano. I loro genitori, forse non si saranno laureati, ma hanno potuto godere di un sistema sociale che li ha in qualche misura garantiti, cosa che non è e certamente non sarà per questi ragazzi.

Il ministro Fornero e il rettore Frati, donna e uomo di potere, si sono trovati davanti il fallimento della loro missione, di educatori, di formatori, e di scienziati. La realtà non combacia con la teoria, quando si è chiamati concretamente a modificarla e non solo a disegnarne le coordinate ideologiche che ne dovrebbero essere l’architrave, scrivendone sulle riviste specializzate.  La contraddizione ha scatenato in entrambi un corto circuito, personalmente e oggettivamente virtuoso, perché sarebbe facile accusarli di ipocrisia, quando invece (mi sentirei di dire) si è trattato di una fuoriuscita inattesa di una debolezza profonda e autentica che non va utilizzata per giustificare, derubricare, correggere il giudizio critico sul merito delle loro azioni politiche o gestionali, di cui rispondono pienamente al netto di ogni sentimentalismo; ma che può essere utile per ricostruire un rapporto con il potere, che il berlusconismo ha compromesso rendendo i cittadini succubi di una falsa e stucchevole farsa populista fatta di grasse risate, volgarità e pacche sulle spalle che pagheremo per chissà quanti anni ancora. Di fronte all’inattesa epifania di quello che, se si vuole, può essere definito mero e inutile senso di colpa, mi trovo solidale, intanto perché non mi ritengo migliore di loro. E poi perché sinceramente alla verità , quale che sia (e quelle lacrime erano vere) ritengo sia doveroso dare credito.

Da una finestra buia

2 dicembre 2011 1 commento

Penso con orrore che il mio dirimpettaio, se lo volesse, saprebbe tutto di me. Gli basterebbe starsene affacciato alla finestra, ad esempio la sera, poco prima di mezzanotte, l’ora in cui immancabilmente io vado a dormire, da alcuni anni a questa parte. Standosene lì vedrebbe il mio andirivieni segnalato dall’accendersi e dal successivo spegnersi delle luci nelle stanze che attraverso sempre nello stesso ordine: dal salotto alla cucina, dalla cucina al bagno, attraversando il corridoio, dal bagno di nuovo al corridoio per arrivare in camera da letto: il mio rituale (rassicurante, penso), accompagnato dalle mie staffette luminose che anticipano i miei passi, facendo a modo loro festa alla mia fatica.
Acceso spento, acceso spento, entro ed esco, ora, per esempio, nella camera da letto, accendo la luce generale, poi mi avvicino al comodino, spengo la luce generale, accendo quella del comodino: una sequenza costante, un balletto da finestra a finestra dove, chi guarda, può seguire il rincorrersi di gesti ripetuti e non privi di una loro grazia. Cosa potrei mai fare a questo punto, quando sono in bagno, se non uscirne, ed entrare nella camera da letto, e cosa potrei mai fare, dopo aver spento la luce generale e acceso quella del comodino, se non alzare le coperte e il lenzuolo, infilarmi nel letto freddo e mettermi a  leggere, o pensare o a pregare? Il mio vicino avrebbe vita facile, nel guardarmi dalla finestra di fronte. Potrebbe indovinare ogni mio gesto, con un’espressione che so di sufficienza e imbarazzante superiorità, fino ad anticipare il mio ultimo passo, il buio ultimo, verso mezzanotte e un quarto, mai oltre. A questo punto lui saprebbe già che non vedrebbe accendersi più nessuna luce, per stanotte.
A quel punto lui potrà chiudersi in casa, e abbassare le serrande (cosa che io non faccio perché non amo il buio, anzi mi piace il chiarore azzurro e giallo della strada) e andarsene a letto strisciando le pantofole, più per pigrizia che per stanchezza. Chiudere tutte le imposte della casa, controllare minuziosamente, fra la mezzanotte e un quarto e mezzanotte e venti,che nessuna rimanga aperta, perché è terrorizzato dall’idea che io, che sono il suo dirimpettaio, me ne stia alla finestra buia, dopo aver spento la luce del comodino, l’ultima, a mezzanotte e un quarto, a spiarlo.
Così, nel buio, a tentoni raggiunge il bagno, poi torna verso il salotto, attraversando il corridoio, poi in cucina, qualche volta squilla il telefono, anche molto tardi: ne porta sempre uno con sé, nella tasca dei pantaloni, pigia inavvertitamente i tasti, che suonano per ricordargli di stare più attento.
Quando ha finito di fare il giro ed essersi accertato di aver chiuso tutte le imposte, ora che finalmente potrebbe accendere le luci, preferisce rimanere al buio, perché teme che dalle fessure delle vecchie serrande di legno, possa strisciare fuori una luce, sottile e maligna. Sa benissimo che ogni precauzione è inutile: non sarebbe difficile per me che sono il suo dirimpettaio andare dietro al suo percorso abitudinario, verso mezzanotte e venti, dal bagno alla cucina al salotto, seguendo il rumore delle serrande che via via vanno abbassandosi: cosa potrebbe fare ora, dopo che l’ultima serranda ha toccato il davanzale, se non avanzare lentamente strisciando lungo il muro e dirigersi verso la camera da letto, scostare la coperta e il lenzuolo e infilarsi nel letto freddo con una punta di acidità e un’amarezza disillusa? Sono anni che fa così, nel terrore che il suo dirimpettaio lo spii, dalla finestra buia.

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